“La storia è governata da un inesorabile determinismo in cui la libera scelta dei principali personaggi storici ha un ruolo marginale”, Leone Tolstoj
“Gli americani hanno gli orologi, ma noi abbiamo il tempo”, un membro di una tribù afghana
“I recenti avvenimenti riguardanti l’Afghanistan non dovrebbero generare confusione. La coalizione formata da Stati Uniti e Nato ha perso una guerra che i suoi leader politici non hanno mai voluto, e non hanno mai saputo come, vincere”, Michael Scheuer, ex capo dell’unità Cia a caccia di Bin Laden.
Per preparare gli americani, in special modo coloro che rifiutano di accettare il declino dell’egemonia statunitense, nel suo saggio pubblicato su nationalinterest.com il professor Paul Kennedy – che nel 1987 scrisse un’opera pionieristica intitolata The Rise and Fall of the Great Powers – cerca di preparare i credenti nella validità eterna del “destino manifesto” degli Usa al ridimensionamento della potenza e dell’influenza di Washington.
Dopo una lucida esposizione della storia europea degli ultimi cinque anni, il prof. Kennedy biasima gli imperialisti, i neo-con e i “sio-con” statunitensi, in particolare per l’uso inappropriato della parola appeasement nella sua accezione più comune: resa. Secondo il prof. Kennedy, per il primo ministro Neville Chamberlain a Monaco si trattò di una mossa strategica, e non di una resa.
Nel suo libro, il prof. Kennedy mise in evidenza lo stretto legame esistente tra economia, potere e strategia politica negli ultimi cinque secoli, forse per la prima volta in un’opera storica. Il libro prevedeva che gli Stati Uniti si sarebbero esposti troppo e che avrebbero potuto subire un declino; tutto questo si è avverato, sebbene all’epoca una tale blasfemia sia stata oggetto di scherno da parte di molti, soprattutto perché l’Unione Sovietica stava già smembrandosi e il Giappone non era riuscito ad acquisire un vero potere.
Il libro, tradotto in 23 lingue, venne accolto molto positivamente dagli altri storici, come A.J.P. Taylor, sir Michael Howard e altri. L’autore di questo articolo, che all’epoca (1987-89) partecipava all’istituzione della Scuola diplomatica per i funzionari del Ministero degli Esteri indiano, raccomandò il libro come lettura obbligatoria, tra l’altro, per tutti coloro che si apprestavano a intraprendere la carriera diplomatica.
Per la prima volta, nel libro si stimava che la percentuale di partecipazione dell’Hindustan (il subcontinente) e della Cina all’economia mondiale ammontava rispettivamente al 24,5% e al 32,8% nel 1750, anno in cui le compagnie commerciali e d’invasione occidentali giunsero in Asia; dopo che queste ultime ebbero colonizzato e razziato il continente, nel 1900 le percentuali scesero all’1,7% e 6,2% rispettivamente, mentre quella dell’Europa, in particolare quella britannica che passò dall’1,9% al 18,5%, aumentò fino al 62%. L’Asia assicurò le materie prime e i mercati protetti che favorirono l’industrializzazione dell’Europa, mentre la ricchezza estorta alle colonie servì a espandere e a mantenere l’Impero britannico, su cui il sole non tramontava mai. Non dovrebbe quindi sorprendere che la percentuale di partecipazione di Cina e Hindustan all’economia mondiale stia di nuovo aumentando.
Prima di considerare ciò che il prof. Kennedy afferma a proposito di Afghanistan e Pakistan nel suo saggio, si presenteranno alcuni dati storici, geografici e psicologici riguardanti l’Asia meridionale e le regioni immediatamente confinanti.
La configurazione geopolitica di India e Pakistan
Per quanto riguarda la configurazione geopolitica dell’Hindustan o Asia meridionale, coloro che oggi prevalgono in Pakistan – ossia i musulmani dal Punjab a Lahore e Islamabad – nel corso della storia hanno provato invidia per coloro che governavano l’Hindustan e che avevano stabilito la propria capitale sulla Yamuna a Delhi o Agra, disponendo di vasti territori a cui imporre tasse, anche senza il Deccan. Essi invitarono i Moghul a invadere l’Hindustan quando gli afghani erano al potere a Delhi. Poi invitarono i Pathan e gli iraniani quando i Moghul detenevano il potere a Delhi. La religione di chi era al potere a Delhi era irrilevante. Per difendersi, l’Hindustan avrebbe dovuto controllare Kabul, se non anche Kandahar, come successe all’epoca dei primi Moghul. Una volta che Kabul e Kandahar andarono perdute, l’Hindustan divenne preda degli invasori. E le genti del Punjab parteciparono alle razzie, depredando gli invasori se questi non avevano successo.
Oggi è in atto lo stesso paradigma strategico. Le potenze straniere – prima la Gran Bretagna, poi gli Usa e la Cina – sono dietro alle violente contese che hanno visto il Pakistan opporsi all’India, prima nel 1947, poi nel 1965 e infine con la guerra di Kargil, per citare alcuni episodi. In questo processo, il Pakistan è stato afflitto dalla diffusione dell’oppio (nella cui coltivazione e vendita di contrabbando le élite pakistane, specialmente individui provenienti dall’esercito e dall’ISI, sono coinvolte sia per finanziare le proprie attività sia per incrementare la ricchezza personale) e dei kalashnikov e continua a invidiare il progresso economico dell’India.
La debolezza dell’India
Grandi pensatori nel campo della metafisica e delle questioni spirituali, con una visione del mondo interiore simile a una rana in un pozzo, nel corso della storia gli indiani hanno mostrato raramente di possedere l’intelligenza tattica e la mancanza di scrupoli necessaria ad adottare decisioni strategiche. C’è qualcosa che non va nel clima sicofantico di Delhi e dell’Hindustan, a prescindere dal fatto che i leader siano induisti o musulmani. Tra i pochi regnanti dotati di una mentalità e di capacità strategiche ci furono i Maurya, che avevano la loro capitale a Pataliputra e dislocarono il principe ereditario a Ujjain per respingere l’invasione dall’Hindukush e scontrarsi con l’invasore nel percorso prescelto: il Sind-Gujarat o Punjab e le montagne ai piedi dell’Himalaya. Allo stesso modo i primi Moghul; dopo aver costruito la sua lussuosa capitale a Fatepur Sikri, Akbar passò circa dieci anni nei pressi di Lahore per contrastare l’arrivo dei mongoli e di altri popoli radunatisi nella regione dell’Hindukush. In epoca moderna, c’è stata Indira Gandhi che, invece di rastrellare in tutto il mondo (come sta invece facendo l’attuale leadership in seguito allo stupro della capitale economica e culturale dell’India avvenuto il 26 novembre 2008) per evitare l’afflusso di rifugiati provenienti dal Pakistan orientale, sfruttò la situazione e divise in due il Pakistan. Ci sono stati ancora pochi altri, come il maharaja Sikh Ranjit Singh e Tippu Sultan, ma le tele che tessero furono di gran lunga meno ampie.
Come è stato ricordato scherzando, salvo il mitico re Poro che oppose una forte resistenza all’avanzata di Alessandro Magno, la regione tra Peshawar e Panipat è sempre rimasta porosa per gli invasori provenienti da nord-ovest. Sopravvivere a tutte le avversità è la qualità delle genti della regione, che sono dinamiche, lavorano sodo e tra loro ci sono delle buone guide, che tuttavia non sono abbastanza perspicaci da assumere il controllo supremo. Solo raramente hanno dato vita a grandi regni, come evidenziò Rajiv Gandhi durante l’insurrezione del Punjab indiano supportata dal Pakistan, e l’unico Stato di una certa importanza in quella regione venne creato dal maharaja Sikh Ranjit Singh a Lahore.
Durante l’epoca coloniale e dopo la partizione dell’India, gli inglesi, seguendo il principio imperialista del divide et impera, hanno sfruttato la rivalità tra induisti e musulmani. La bugia che hanno lasciato durevolmente in eredità consiste nell’aver inculcato ai pakistani l’idea che essi sono più coraggiosi degli indiani e degli induisti. Naturalmente alcuni pakistani ci hanno ricamato sopra, rintracciando le origini del proprio popolo in Asia centrale, in Afghanistan, in Iran e nelle terre arabe. Quando si schierarono con gli inglesi all’epoca in cui gli abitanti dell’Hindustan insorsero contro la Compagnia delle Indie Orientali nel 1957, i pakistani vennero classificati come una razza marziale e destinati a carne da macello per l’impero a causa del loro tradimento. Il giornalista e storico S. Khuswant Singh ha ricordato che il Punjab venne conquistato dagli inglesi con truppe indiane provenienti dal Bengala, dal Bihar e dall’Orissa. Gran parte dei pakistani e dei musulmani in India erano in origine individui provenienti dall’Hindustan e dal Deccan che si sono poi convertiti.
Un altro esempio. Nell’odierna Repubblica turca, coloro che giunsero dall’Asia centrale – ossia i turcomanni e altre tribù altaiche – e che diedero vita all’impero selgiuchida e ottomano costituiscono il 12-15% del totale. Ironia della sorte, gran parte di essi sono aleviti e seguono una forma sciita dell’Islam, che trae origine dalla loro visione cattolica centroasiatica che rispetta e accoglie spunti da tutti i credo, a partire da Tengri (il dio turcomanno che simboleggia il cielo) agli sciamani, fino al buddhismo, il cristianesimo, evolvendo infine in una versione sufita umanistica dell’Islam. Gli aleviti non sono trattati molto meglio degli ahmadi, dei qadiani e persino dei mohajir (emigrati dall’attuale India) in Pakistan. Di tanto in tanto, devono far fronte a pogrom da parte dei turchi sunniti. I cittadini turchi discendono in gran parte dagli abitanti originari dell’Asia minore, che parlavano greco quando vennero conquistati, e dai migranti delle province ottomane dell’Europa orientale. Il paese venne islamizzato e turchizzato dopo la disfatta dell’esercito bizantino a opera dei turchi selgiuchidi sul lago Van nell’XI secolo e la conquista nel 1453 di Costantinopoli, l’odierna Istanbul.
Ma non sono in molti a conoscere l’influenza e il contributo del Buddhismo all’Islam sufita, sebbene il contributo dei santi sufiti dal Khorasan e dall’Asia centrale sia riconosciuta. L’Islam si diffuse nel subcontinente in gran parte per opera dei santi sufiti.
Le comunità altaiche nell’Asia centrale costituiscono una piccola parte della popolazione dell’Asia meridionale, della Turchia e via dicendo. Dunque la leggenda secondo cui queste facevano parte del gruppo di invasori è evidentemente falsa. In ogni caso i mongoli e le loro orde, le tribù altaiche e altre che devastarono e dominarono l’Asia e l’Europa orientale per oltre un secolo sono stati dominati col pugno di ferro dai russi, da cui si affrancarono in seguito al crollo dell’Urss. L’epoca del predominio basato sulla bruta forza fisica è finita già da tempo, altrimenti i neri negli Stati Uniti e gli africani tra gli altri, che dominano in campo sportivo, controllerebbero il mondo.
Il petrolio mediorientale e la partizione del Pakistan
Si consideri ora la raison d’être per cui venne creato il Pakistan. Già prima della Seconda guerra mondiale era divenuto chiaro che il petrolio rivestiva un’importanza capitale per affrontare le guerre e sostenere l’economia. Negli anni quaranta gli inglesi, che dominavano il Medio Oriente e amministravano ancora l’India, consapevoli dell’importanza del petrolio e dell’importanza strategica del Medio Oriente quale ancora di salvezza per l’India, strinsero alleanze militari con la maggior parte dei paesi mediorientali, incluso l’Iran, per proteggere i propri pozzi di petrolio dall’Unione Sovietica.
Gli inglesi, quindi, crearono un Pakistan debole e dipendente che fungesse da baluardo contro qualsiasi mira dell’Unione Sovietica sul Golfo e l’Asia meridionale. Lo Stato voluto dagli inglesi aveva il destino segnato sin dall’inizio. Nel 1972, quando l’autore di questo articolo venne assegnato ad Ankara, i turchi non si stupirono della divisione del Pakistan.
Nel suo libro ben documentato The Shadow of the Great Game: The Untold Story of India’s Partition e basato su documenti inglesi, un ex diplomatico indiano, Narendra Singh Sarila, rivela che dopo la Seconda guerra mondiale, avendo ormai compreso che Londra avrebbe dovuto liberare l’India dal suo giogo, la classe dirigente inglese di ogni orientamento politico, conservatore e laburista allo stesso modo, tramò, raccontò una serie di bugie e infine divise il subcontinente indiano creando lo stato del Pakistan. Questo perché a causa della dottrina della non violenza e della pace propugnata da Gandhi, nonché l’idealismo non strategico e la visione di Jawaharlal Nehru per la creazione di un rapporto di amicizia e solidarietà tra i popoli colonizzati e sfruttati nel mondo intero, Nuova Dehli non avrebbe mai firmato i patti militari occidentali per proteggere i giacimenti di petrolio mediorientali dall’Unione Sovietica.
L’obiettivo finale degli inglesi era quello di mantenere il controllo su almeno una parte dell’India nordoccidentale, per scopi difensivi e offensivi nei confronti dell’Urss in caso di future concessioni nel subcontinente. E gli inglesi sapevano che questo obiettivo sarebbe stato raggiunto più facilmente se un Pakistan zelante e obbediente avesse stretto con loro un rapporto clientelare. L’unico modo per ottenere tutto questo era quello di usare Jinnah per staccare una parte dell’India, che confina con Iran, Afghanistan e lo Xinjiang e crearvi un nuovo Stato. Sarila documenta nei dettagli il fatto che, al termine della Seconda guerra mondiale, il nuovo governo laburista di Clement Attlee e Wavell decisero di dividere l’India e usarono Jinnah e i movimenti politici islamici per proteggere i propri interessi strategici.
In un telegramma segreto datato 6 febbraio 1946 e indirizzato al Segretario di Stato a Londra, Lord Wavell spiegava a grandi linee come avrebbe dovuto essere divisa l’India. Il 3 giugno 1947 il ministro degli esteri inglese Ernest Bevin, in un discorso tenuto all’assemblea annuale del partito laburista, rivelò che la divisione dell’India “avrebbe contribuito a consolidare la posizione della Gran Bretagna nel Medio Oriente”.
Sarila illustra inoltre le origini dell’attuale problema in Kashmir e come la questione venne gestita alle Nazioni Unite in modo da favorire l’alleato pakistano. Il fatto che l’India non avrebbe dovuto avere un accesso diretto via terra in Asia centrale, nemmeno attraverso l’Afghanistan, e che questo causò la perfida politica dell’Occidente riguardo alla questione del Kashmir è stato affermato chiaramente anche nel libro War and Diplomacy in Kashmir, 1947-48, di un altro diplomatico indiano, C. Das Gupta.
L’asse militare Usa-Pakistan
A differenza di quanto accadde in India, all’inizio in Pakistan non esistevano organizzazioni politiche popolari forti, mentre i funzionari civili dell’epoca britannica rafforzarono il controllo dell’apparato burocratico sull’entità politica e sulle decisioni da prendere e ben presto invocarono un aiuto militare. Poco dopo il generale Ayub Khan, incoraggiato dai militari americani, cercò di stringere rapporti di cooperazioni più stretti con il Pentagono. E nel 1958 i militari si impadronirono del paese, mentre Ayub Khan, un semplice colonnello all’epoca della divisione, si promosse ben presto al rango di feldmaresciallo. Egli cacciò via gli ufficiali che non volevano sottostare al piano anglosassone che prevedeva di sfruttare la posizione strategica del Pakistan nell’ambito delle mutevoli contese della Guerra fredda contro il blocco comunista.
Il generale Zia ul-Haq fu un abile macchinatore, un vero mullah in uniforme. Mentre seduceva i mezzi di comunicazione dell’India del Nord (che un altro generale, Parvez Musharraf, trattò con atteggiamento sprezzante ad Agra nel 2001) con generosi encomi e kebab, il generale pianificò l’operazione Topaz, che nel 1989 alimentò l’insurrezione in Kashmir. L’islamizzazione del paese a cui diede impulso rese la situazione per le donne e per le minoranze insostenibile. In seguito alla sentenza di esecuzione di Zulfiqar Ali Bhutto nel 1977, il generale Zia divenne un paria; ma nel 1979, dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, divenne nuovamente caro agli Stati Uniti, i quali ripristinarono e rafforzarono notevolmente i legami militari del Pakistan con il Pentagono.
Questo fece sì che il controllo sul Pakistan da parte dei militari e dell’ISI diventasse pervasivo, onnipotente, onnisciente e minaccioso per il paese stesso. Questa alleanza difensiva, le cui radici risalgono all’epoca di Ayub Khan, e la relazione simbiotica tra l’ISI e la CIA, rafforzata dal generale Zia, non sono mai venute meno e le probabilità che questo accada sono poche. Washington preferisce avere a che fare con i militari e con altri dittatori, che sono più facilmente gestibili.
Come all’epoca dell’entrata delle truppe sovietiche in Afghanistan nel 1979, causata dalle provocazioni degli Usa e dal sostegno ai jihadisti afghani (come arrogantemente ammesso da Zbigniew Brzezinski, consigliere della sicurezza nazionale di Carter, al settimanale francese Le Nouvel Observateur), l’11 settembre ha nuovamente posto la necessità che il Pakistan si conformasse nuovamente agli obiettivi degli Stati Uniti (Washington minacciò persino di radere al suolo il Pakistan con le bombe se non avesse obbedito). Washington aveva bisogno del Pakistan per proteggersi dalla cosiddetta ritorsione della sua precedente politica in Afghanistan con cui aveva creato i Mujaheddin, Al Qaeda e i Taliban. Gli Usa desideravano ardentemente impedire che il materiale nucleare o la bombe atomiche pakistane finissero nelle mani dei jihadisti. Secondo alcuni documenti, in questo caso si verificherebbe l’intervento delle forze speciali statunitensi, mentre secondo un altro documento le armi nucleari più importanti sarebbero state nascoste vicino al confine con la Cina, in modo da poter essere facilmente portate via. In ogni caso, la prospettiva è pericolosa, specialmente per i vicini del Pakistan, che ricatta regolarmente l’India, con grande sollievo per l’Occidente, che non esprime mai alcuna condanna. E pensare che l’Occidente si coalizza contro Tehran che arricchisce l’uranio per generare energia!
La creazione di vivai di terroristi in Afghanistan e Pakistan
Dal 1979 fino all’abbandono delle truppe sovietiche nel 1989, gli Usa, la Gran Bretagna, altri paesi occidentali, l’Arabia Saudita, altri paesi del Golfo o musulmani e persino la Cina (che ha venduto fucili d’assalto AKM e lanciarazzi RPG Type 69, mentre gli Stati Uniti hanno fornito addirittura sistemi missilistici antiaerei) hanno sfruttato i jihadisti come arma contro le forze russe in Afghanistan. Washington e Riyadh sono stati i principali finanziatori, per un totale di circa 10 miliardi di dollari per la guerra in Afghanistan (gli Stati Uniti hanno contribuito con 600 milioni di dollari l’anno di aiuti, una cifra analoga proveniva dagli Stati del Golfo). La CIA e i suoi alleati, l’ISI, l’MI6 britannico e altri hanno reclutato, equipaggiato e addestrato quasi 40 000 mujaheddin fanatici provenienti da 40 paesi musulmani tra cui il Pakistan, l’Arabia Saudita, l’Iran, l’Algeria e lo stesso Afghanistan. Il governo militare di Zia ha fondato circa 2500 scuole religiose, finanziate dall’Arabia Saudita e appoggiate dagli Stati Uniti. Circa 225 000 bambini iscritti in queste scuole sono stati addestrati a combattere come guerriglieri in Afghanistan e altrove. Non è stato speso neanche un centesimo a sostegno della popolazione o dell’economia aghane.
Tra coloro che risposero all’appello per la Jihad figura il miliardario saudita Osama bin Laden con le sue coorti. Sebbene nella sua violenta campagna contro gli interessi degli Stati Uniti bin Laden avesse attaccato alcune ambasciate americane nell’Africa orientale e gli Stati Uniti abbiano reagito attaccando i suoi campi di addestramento con missili, fu solo con l’attacco al World Trade Center di New York dell’11 settembre 2001 che gli Stati Uniti si resero conto della possibile minaccia posta dal terrorismo nucleare, con legami tra Al Qaeda, i Taliban e altri facenti capo al potente ISI nel Pakistan dotato di armi nucleari (naturalmente, molte persone, anche negli Stati Uniti, credono che l’11 settembre sia stata una montatura per fornire agli Stati Uniti un pretesto per attuare le sue invasioni illegali).
Dopo aver imposto il ritiro delle forze sovietiche dall’Afghanistan nel 1989, cui seguì lo sgretolamento e il crollo dell’Urss, l’Occidente dimenticò a lungo il mostro che aveva creato. Ma era ovvio che i vivai di terroristi lasciati a sud del ventre molle della Russia e proprio al di là del confine con la turbolenta provincia musulmana dello Xinxiang nella Repubblica cinese e con lo Jammu e Kashmir in India avrebbero prima o poi agito in maniera negativa in questi paesi. I mujaheddin mercenari, infatti, si animarono di vita propria. A centinaia fecero ritorno nei paesi d’origine, in Algeria, Cecenia, Kosovo e Kashmir per organizzare attentati terroristici in nome di Allah contro i seguaci della “corruzione” laica. Di fatto, Lashkar-e-Toiba, l’implacabile organizzazione nemica dell’India, nacque mentre l’Occidente e i paesi musulmani stavano intraprendendo la loro guerra contro l’Urss in Afghanistan. Per gli Stati Uniti si tratta solo di un danno collaterale per l’India. Un vero peccato!
Negli anni ottanta, la jihad sviluppò anche un cancro autoctono in Pakistan, che adesso minaccia seriamente di distruggere lo stesso Pakistan. Finita la Jihad contro le truppe sovietiche in seguito al ritiro dei russi, nel 1990 l’ISI assegnò ai jihadisti un nuovo compito: seminare il terrore in Jammu e Kashmir. Guidati da veterani afghani, i combattenti vennero addestrati, equipaggiati e finanziati in segreto dall’ISI per combattere contro i soldati indiani in Kashmir. Migliaia vennero trasportati dagli Usa nei Balcani per combattere contro i serbi, dando loro un’esposizione internazionale. I migliori vennero poi inviati in Afghanistan per aiutare i Taliban contro le truppe della Nato e degli Stati Uniti che sostenevano a Kabul il governo di Hamid Karzai, imposto da Washington in Afghanistan nel 2002.
Il ruolo dei guerrieri islamici nella Storia
Le tensioni tra chi detiene il potere, il clero e i combattenti religiosi, ossia i Mir e i Pir, non si sono ancora allentate nel mondo islamico. Sembra andare a marcia indietro anche la moderna Turchia, l’unica nazione musulmana laica, dove il partito religioso dell’AK al potere è in ascesa, grazie ai miliardi investiti dai sauditi in Turchia e ai regali diretti al partito. I finanziamenti sauditi alle madrasah e alle moschee sono il principale ostacolo alla modernizzazione dell’istruzione e allo sviluppo della società islamica. La situazione rimarrà invariata finché la dinastia saudita protetta da Washington non sarà rovesciata.
Ascesa e declino dei giannizzeri nell’Impero ottomano. Un paragone con il potere dei Taliban
Poiché l’Iran divenne una barriera per il reclutamento dei turchi non musulmani dall’Asia centrale, una pratica che gli arabi avevano adottato, i sultani ottomani – successori dei turchi Selgiuchidi in Anatolia, come era chiamata allora la Turchia – conquistarono infine l’Impero bizantino e fecero di Costantinopoli, la capitale imperiale, la loro Istanbul. Poi cominciarono a reclutare ragazzi cristiani provenienti in gran parte dai Balcani ma anche dall’Anatolia per le loro famose truppe d’assalto, i giannizzeri, e per le posizioni più importanti dell’apparato amministrativo, con un sistema chiamato “Devshirme”.
Inizialmente basato sul reclutamento coatto, il sistema si trasformò progressivamente in un corpo – privilegiato e influente – di guerrieri che prevedeva la conversione dei ragazzi cristiani all’Islam, i quali imparavano le arti marziali turche. A differenza dei coscritti feudali, i giannizzeri giuravano fedeltà esclusivamente al sultano. Un rigido addestramento e un codice morale severo li rese qualcosa di più che un’impressionante forza militare, ossia un’entità politica dal potere talmente sconfinato (predecessori dell’ISI e dei Taliban loro protetti?) da contribuire involontariamente alla caduta dello stesso Impero. I giannizzeri furono un fattore importante nell’espansione militare dell’Impero ottomano, a partire dalla presa di Costantinopoli nel 1453 fino alle battaglie contro l’Impero austro-ungarico (il Pakistan in mano a individui del Punjab spera di estendere il predominio sull’Afghanistan e oltre; molti amministratori pakistani come il generale Zia sognavano di creare dei califfati).
Man mano che il potere ottomano aumentava, una serie di rivolte dei giannizzeri procurò loro molto potere. La prima rivolta dei giannizzeri nel 1449 servì da modello per molte altre rivolte successive, ognuna delle quali procurava più potere e denaro. I giannizzeri raggiunsero un livello d’influenza talmente elevato che alla fine del XVII secolo la burocrazia ottomana era di fatto ostaggio dei loro capricci e desideri. Un ammutinamento generò un cambiamento nell’atteggiamento seguito dai politici. I giannizzeri finirono con l’organizzare colpi di stato volti a rovesciare addirittura i sultani che non accontentavano le loro richieste. I giannizzeri posero davanti a qualsiasi altra cosa il loro interesse personale e ostacolarono la modernizzazione dell’esercito (i militanti pakistani/jihadisti legati ad Al Qaeda hanno tentato di assassinare il presidente Musharraf e hanno attaccato molti importanti santuari inclusi quelli dei Santi sufiti a Lahore e persino posti di polizia e dell’esercito).
Nel 1807, i giannizzeri insorsero contro il sultano Selim III e lo sostituirono con Mahmud II, il quale decise infine di decimare i giannizzeri per preservare l’impero. Nell’estate del 1826, quando i giannizzeri organizzarono un’altra rivolta, il resto dell’esercito e il popolo si schierarono contro di loro. I giannizzeri, infine, dovettero affrontare la morte oppure l’abbandono e l’esilio. I sopravvissuti furono messi al bando e le loro ricchezze sequestrate dallo Stato.
Come nel sultanato d’Iconio, negli anni ottanta i pakistani – guidati dal presidente religioso Zia-ul-haq- inviarono in Afghanistan jihadisti e militanti, ossia ghazi dei giorni nostri, che imposero l’abbandono dell’Afghanistan da parte dei sovietici. Infine il Comunismo, danneggiato dal nazionalismo slavo e dal cristianesimo ortodosso, crollò all’inizio degli anni novanta.
Se il Pakistan riuscisse ad annientare i Taliban…
Un insieme composto da vari miliziani, predoni, fanatici religiosi, nazionalisti e capoclan etichettati come Al Qaeda, Taliban, Taliban pakistani a via dicendo sono in qualche modo simili ai giannizzeri dell’Impero ottomano, la forza militare più efficiente che nel passato terrorizzò i cristiani europei. Ma ben presto, invece di spargere il terrore tra i nemici degli ottomani, essi minacciarono i sultani e alla fine i giannizzeri dovettero essere annientati. Riuscirà il Pakistan a fare la stessa cosa, ossia a distruggere i Taliban pakistani? È una bella domanda. Forse il generale Musharraf avrebbe potuto farlo dopo l’11 settembre. Adesso invece bisognerebbe pagare un prezzo molto alto.
L’ennesimo asse Usa (Israele, Gran Bretagna) – dinastia saudita/wahabita – esercito pakistano/ISI
Al termine della Seconda guerra mondiale, Washington – che aveva procrastinato l’entrata in guerra in modo che la Gran Bretagna subisse perdite e si indebolisse – si autoproclamò ufficialmente capo delle nazioni cristiane occidentali. Già al termine del primo conflitto mondiale il centro del potere economico aveva cominciato a spostarsi dalla City di Londra verso Wall Street; ma Londra possiede ancora un grande potere di manipolazione e inganno.
A partire dagli anni cinquanta, l’Urss cominciò a interessarsi a molti Stati arabi guidati da leader laici e nazionalisti, come Abdul Gamal Nasser in Egitto. L’Occidente si servì della religione e di capi di Stato conservatori e dalle cariche ereditarie per contrastare le ondate di egualitarismo socialista che investirono il Medio Oriente, l’Asia e l’Africa. La lotta per ottenere l’influenza e il controllo su questi paesi da parte dell’Occidente e dell’Urss (con la Cina) ha visto molti capovolgimenti di fronte.
Un cambiamento fondamentale fu determinato dalla perdita dell’Iran nel 1979, quando lo Shah in Shah – il guardiano degli Stati Uniti in quella regione – venne rovesciato dalla rivoluzione sciita guidata da Khomeini, mettendo in pericolo gli alleati degli Stati Uniti, ossia l’Arabia Saudita e altri sceiccati e regni nella regione. Il mondo occidentale e i suoi impauriti alleati in quella regione, scioccati, incoraggiarono e fornirono aiuti economici e militari a Saddam Hussein, affinché spegnesse le fiamme che eruttavano dal vulcano della rivoluzione sciita con la fede nel martirio. Iran e Iraq persero oltre un milione di giovani. La guerra degli anni Ottanta tra Iran e Iraq servì solo a proteggere gli interessi dell’Occidente e dei suoi alleati in quell’area. L’Iraq continua a subire perdite e a soffrire.
Dal Medio Oriente, la leva della strategia occidentale per manipolare e controllare la regione e le sue risorse si è espansa nell’Asia meridionale grazie a un asse tra Washington, i religiosi wahabiti dell’oscurantista dinastia saudita e l’esercito pakistano-ISI. Dalla caduta dello Shia, Israele continua a essere l’attuale guardiano di Washington in Medio Oriente, cosa che ha reso Tel Aviv più esigente e irresponsabile nei suoi comportamenti. La sua importanza strategica non diminuirà, anche se gli Stati Uniti hanno perso in Ucraina nei confronti della Russia, hanno avuto un’attitudine esitante in Kirghizistan e l’alleato georgiano è stato duramente colpito due anni fa da Mosca, allo stesso modo degli invincibili carri armati e dei famigerati commando militari israeliani per mano dei guerriglieri Hezbollah nel Libano meridionale durante la guerra del 2006.
I vivai di terroristi di cui ci si era dimenticati si sono trasformati in Al Qaeda e nei Taliban, questi ultimi creati dal Pakistan con l’appoggio dei governanti arabi dei Paesi del Golfo e il consenso statunitense, dal momento che Washington voleva un Afghanistan “stabile” per gli oleodotti della sua multinazionale UNOCAL, che dovevano trasportare petrolio dall’Asia centrale a quella meridionale e oltre. Questo sogno non si è ancora realizzato.
In cambio della sua cooperazione, il presidente pakistano Zia-ul-Haq ricevette un adeguato compenso in denaro e aiuti militari che permisero a Islamabad di invadere il Kargil, in India. In abbondanza di armi, il Pakistan acquisì una cultura della violenza e aumentò la produzione di oppio in Afghanistan, rendendo inoltre milioni di suoi cittadini dipendenti dalla droga. Il generale Zia islamizzò il Pakistan e portò a termine il programma per la costruzione della bomba atomica con l’aiuto della Cina e con l’assenso e persino l’appoggio dell’Occidente.
Ma il capo di Al Qaeda Osam bin Laden, scelto per la Jihad in Afghanistan dai governanti sauditi, sognava di conquistare quegli Stati musulmani che si erano allontanati dall’ideologia salafita/wahabita e di convertire altri popoli all’Islam. Le vittime di questo disegno sono l’India e gli Stati dell’Europa centrale di recente indipendenza come il Tajikistan, il Kirgizistan e l’Uzbekistan e gli Stati arabi che hanno appoggiato la guerra e inviato volontari per combattere in Afghanistan.
I tragici eventi dell’11 settembre hanno mostrato chiaramente le contraddizioni di fondo dell’asse Usa-Arabia Saudita-Pakistan, dal momento che 14 dei 19 dirottatori erano di origine saudita ed erano guidati da un egiziano, mentre le ramificazioni dei Taliban e di Al Qaeda nell’esercito, nell’ISI e nella classe dirigente del Pakistan e viceversa erano profondissime.
Sebbene i dirottatori dell’11 settembre fossero sauditi, gli Stati Uniti – che avevano vinto in seguito alla caduta del muro di Berlino nel 1990 ed erano divenuti l’unica superpotenza mondiale – organizzarono invece un’invasione in Afghanistan, nell’ambito della cosiddetta “Guerra al Terrorismo”; in realtà l’obiettivo era quello di costruire basi militari per controllare la regione ed espandere la minaccia e il dominio di Washington in Asia centrale, ricca di petrolio e altre risorse.
Ma le tensioni all’interno dell’asse stretto tra crociati e jihadisti divennero intollerabili dopo che gli Stati Uniti invasero illegalmente l’Iraq nel marzo del 2003, provocando la rabbia e l’ostilità delle masse di musulmani in tutto il mondo nei confronti di Usa, Gran Bretagna e degli altri Stati occidentali, sullo sfondo della persistente occupazione ed espansione illegale in territorio palestinese da parte di Israele sin dal 1967 e dell’uccisione quotidiana di palestinesi trasmessa da canali come Al Jazeera.
Divenne ben presto chiaro che i motivi addotti per l’invasione dell’Iraq erano in realtà delle menzogne. Il vicesegretario alla difesa Usa Paul Wolfowitz confessò subito dopo l’invasione che il vero motivo era il petrolio iracheno e il controllo della regione. Prima dell’invasione, in effetti, Wolfowitz aveva detto al Congresso che la guerra si sarebbe ripagata da sola grazie al petrolio iracheno. Recentemente l’ex capo della Federal Reserve Alan Greenspan lo ha confermato. Si è scoperto che i piani per impadronirsi dell’Iraq a causa delle sue riserve petrolifere erano stati redatti già prima che George Bush giurasse come presidente, dopo che venne dichiarato eletto in base a una incresciosa decisione della Corte Suprema.
Le relazioni Usa-Arabia Saudita sono basate ancora sullo sfruttamento occidentale del petrolio arabo in cambio della protezione alla dinastia saudita, cosa che conferisce a quest’ultima – in qualità di regnante nel principale Stato musulmano sunnita, dal momento che protegge i luoghi santi della Mecca e Medina e che possiede ingenti riserve di petrolio – un potere sconfinato. Poiché dentro il regno l’appoggio pubblico nei confronti di Al Qaeda sta aumentando, Riyadh potrebbe correre gravi rischi. Il suo potere e il suo prestigio sono scemati a seguito del rafforzamento della posizione della potenza sciita rivale dell’Iran in Iraq e in tutta la regione, proprio il contrario di ciò che Washington si aspettava prima dell’invasione nel 2003. Il presidente George Bush non conosceva nemmeno la differenza tra l’Islam sciita e sunnita e Ahmet Chalebi, un iracheno molto furbo in esilio in seguito alla caduta della dinastia Hashemita nel 1958, era riuscito a far credere agli uomini del Pentagono che le truppe americane sarebbero state accolte dagli iracheni con il tappeto rosso. Nessuno si è mai preoccupato di leggersi la storia dell’Iraq o della regione.
L’invasione e l’occupazione statunitense dell’Iraq ha diviso il paese in almeno tre parti: sciiti, sunniti e curdi. Ad oggi, sembra molto difficile, se non impossibile, sanare le spaccature e ripristinare l’unità tra loro.
Adesso Washington vuole che il Pakistan annienti Al Qaeda, i Taliban pashtun e i jihadisti musulmani in Pakistan e Afghanistan, con cui l’Arabia Saudita, l’esercito pakistano, l’ISI e la classe dirigente hanno legami strettissimi sin dall’epoca della Jihad contro l’URSS (adesso Israele vuole che l’OLP annienti Hamas, allineato a Teheran, creato in origine dal Mossad per contrastare Al Fattah).
Gli Stati Uniti hanno perso sul campo di battaglia la guerra in Iraq e la Nato è in forte affanno in Afghanistan. Alla fine dell’operazione “Iraqi freedom” – la madre di tutte le battaglie per il petrolio, le materie prime e uno spazio strategico nell’Asia occidentale, meridionale e centrale – i confini del Medio Oriente e del Pakistan verranno molto probabilmente ridisegnati, non dall’Occidente, ma dai movimenti, dalle milizie e dai popoli locali; per esempio in primo luogo dagli sciiti nell’Iraq meridionale e dai Pashtun lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan, i quali potrebbero cancellare ufficialmente la linea Durand. Ma l’Occidente ha investito troppe risorse in questa regione e la sua ricchezza dipende da essa. Sono poche le probabilità che si arrenda o si rassegni senza prima combattere duramente.
I soggetti coinvolti in Afghanistan
Il regno afghano venne considerato uno Stato cuscinetto dagli imperi britannico e russo alla fine del “Grande Gioco” in Asia centrale nel XIX secolo. La Gran Bretagna tentò più volte di conquistare il paese, invano. Alla fine del XX secolo, l’impero britannico e quello russo in Asia erano ormai crollati e dalle loro ceneri erano nati nuovi Stati. Quindi venne meno anche la raison d’être dello Stato cuscinetto. Dopo l’entrata delle truppe sovietiche in Afganistan nel 1979 provocata dagli Stati Uniti, il loro ritiro nel 1989, la lotta tra ciò che restava del regime di Nazibullah e i signori della guerra appoggiati dal Pakistan, infine gran parte del territorio afghano passò sotto il controllo dei Taliban – sostenuti dall’esercito pakistano e dall’ISI e aiutati economicamente dagli Stati del Golfo – che istituirono un regime rudimentale e medievale guidato dal mullah Omar. Intanto i tajiki, gli hazara, gli uzbeki e altri gruppi a maggioranza non sunnita combattevano contro le forze di occupazione russe guidate dai loro signori della guerra e membri della resistenza, come il mitico Masood, che venne misteriosamente ucciso proprio alla vigilia dell’11 settembre. Masood aveva guidato l’Alleanza del nord costituita da tajiki, hazara, uzbeki e altri che si opponevano al regime dei Taliban. L’Alleanza era appoggiata da Iran, Turchia, India, Uzbekistan, Tajikistan e altri paesi.
Il bombardamento e l’invasione dell’Afghanistan nel dicembre del 2001 non furono mai autorizzati delle Nazioni Unite e si basarono sul diritto degli Stati Uniti, e quindi della Nato, di difendere il territorio statunitense dopo gli attacchi dell’11 settembre. Malgrado gli Stati Uniti sognassero di entrare a Kabul come liberatori, a farlo furono le truppe dell’Alleanza del nord di Masood. Da quel momento in poi, fatta eccezione per gli attacchi aerei inclusi quelli fatti da aerei teleguidati che hanno ucciso moltissimi civili inclusi donne e bambini, le forze dell’ISAF e della Nato non hanno ottenuto risultati significativi sul campo di battaglia. L’aumento del numero dei morti fra le truppe straniere e la riluttanza di molti membri della Nato a proseguire ha intaccato profondamente la coesione all’interno delle truppe di occupazione occidentali. Il numero di soldati occidentali uccisi a giugno ha toccato un picco, ma l’Occidente – in conformità alla sua attitudine razziale – non conta il numero di morti tra le truppe nemiche e i civili (né in Afghanistan né in Iraq), secondo quanto ha affermato il generale Colin Powell. Il territorio afghano è sotto il controllo di diversi gruppi armati, sia stranieri che locali, mentre il presidente imposto da Washington, Hamid Karzai, che usa come guardie del corpo mercenari statunitensi, controlla a stento la città di Kabul. Fatta eccezione per Karzai, di etnia pashtun, gran parte della classe dirigente è composta dai leader delle varie etnie dell’Alleanza del nord, mentre la famiglia Karzai batte il ferro (fa cassa) finché è caldo. Recentemente i mezzi di comunicazione statunitensi hanno documentato come miliardi di dollari destinati a progetti militari e di sviluppo hanno preso il volo dall’Afghanistan (di tanto in tanto sono stati documentati simili sottrazioni di denaro anche dall’Iraq). I governi e i mezzi di comunicazione occidentali organizzano campagne di donazioni, per la Serbia o l’Iraq o l’Afghanistan, e le somme che vengono promesse (poi donate in quantità molto minore) vengono spese per affidare consulenze a esperti stranieri (in gran parte occidentali) oppure direttamente rubate e disinvoltamente trafugate per via aerea.
Il numero di soggetti coinvolti in Afghanistan è alto: il popolo afghano , per il 40% di etnia pashtun e per la parte restante composto da tajiki, hazara, uzbeki e altri che hanno origini etniche in Iran, Uzbekistan, Tajikistan, Turkmenistan, Kirgizistan – che forniscono aiuto e anche manodopera – nonché paesi confinanti come la Cina con lo Xinjang e l’ex dominatrice dell’Asia centrale, ossia Mosca. Anche l’India ha interessi di lunga data e ha investito miliardi di dollari in progetti di sviluppo per avere un’influenza e relazioni amichevoli con l’Afghanistan, come accadeva quando il Pakistan era ancora parte dell’Hindustan unito.
Gli interessi del Pakistan sono chiari sin dall’occupazione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 e il coinvolgimento negli affari di quest’ultimo. La dinastia saudita è tra i principali finanziatori della Jihad degli anni ottanta contro l’Urss e in ogni caso, dato che le sue casseforti traboccano di petrodollari, non avrebbe fatto un affare ad acquistare le armi americane e britanniche che, secondo molti, i sauditi non useranno, come i kuwaitiani nel 1990. Ma Riyadh segue la sua ideologia wahabita e possiede il denaro necessario per finanziare non solo le madrasah e le moschee, ma anche per armare il Pakistan e i pashtun afghani. In seguito alla distruzione della potenza irachena, gli alleati sunniti degli Usa, dall’Egitto alla Giordania, l’Iraq occidentale sunnita e persino lo Yemen sono preoccupati dall’incremento del potere e dell’influenza dell’Iran, malgrado tutti gli ostacoli e le sanzioni decise contro Tehran dall’occidente guidato dagli Stati Uniti. L’Iran ha i suoi avamposti in Libano, con gli Hezbollah, e a Gaza, con Hamas. Gli Hezbollah e i leader iraniani e siriani che si schierano contro gli Usa e Israele godono di forte popolarità tra le masse musulmane, e non solo nel mondo arabo.
Cosa succederebbe quindi se, dopo l’Afghanistan, anche il Pakistan si sgretolasse? Dal 1947, i leader pachistani non hanno fatto molti sforzi per sviluppare un’identità nazionale basata sul territorio. Neanche la Cina potrebbe evitare problemi ulteriori nello Xinjiang e in Tibet.
Le dimissioni del generale americano McChrystal
I governi occidentali sono comandati da un oligopolio formato da banchieri e finanzieri insieme al complesso dell’industria militare e del comparto dell’energia. Bush, Obama, Blair, Brown non sono altro che degli strumenti cui essi hanno dato il potere per realizzare strategie aziendali. Anche una volta andati in pensione, questi leader sono ben assistiti. Con una spesa militare pari a quella del resto del mondo messo insieme, gli Stati Uniti sovvenzionano la loro industria militare a spese dei contribuenti attraverso una serie infinita di guerre in tutto il mondo. In questa complicata serie di decisioni e attuazione di strategie, i generali malleabili hanno un ruolo importantissimo. Ricevono molte attenzioni mentre sono in servizio e una volta in pensione ottengono lavori nell’industria militare, in commissioni di esperti e persino come “esperti” militari per reti televisive coma la Fox e la CNN. Moli di loro obbediscono agli ordini dei loro padroni, ma qualcuno ogni tanto replica, protesta, si ribella e ne soffre le conseguenze.
La guerra in Iraq e la rivolta dei generali
Prima del tiro giocato dal generale Stanley McChrystal sulla rivista Rolling Stones per farsi sostituire piuttosto che vivere con l’ignominia di aver perso una guerra in Afghanistan impossibile da vincere, si erano già verificate alcune rivolte da parte di generali americani a proposito della gestione della guerra in Iraq da parte degli Usa. Le avvisaglie si ebbero molto prima del marzo 2003, quando i leader americani e britannici stavano suonando i tamburi di guerra. Le rivelazioni da parte di alcuni membri dell’establishment – a favore di un piano “alla rovescia” che prevedeva di “prendere prima Baghdad insieme a uno o due centri di comando e depositi di armi, nella speranza di isolare la leadership locale e provocare un rapido crollo del governo” – vennero definite dal generale Anthony Zinni, un ex comandante del comando centrale e già inviato Usa in Medio Oriente, come gli ingredienti perfetti per causare un disastro della “baia della capre”, simile al fiasco Usa della Baia dei porci a Cuba nel 1961 (simili piani irrazionali vengono di tanto in tanto proposti per intimidire l’Iran).
Molti generali e commissioni di esperti indipendenti, non finanziate dai neo-con, avevano avvertito che “un attacco degli Stati Uniti destabilizzerebbe pericolosamente la regione, danneggerebbe l’economia mondiale e provocherebbe il risentimento delle masse arabe e musulmane”. Tutto questo si è verificato. Il consigliere del segretario di Stato Colin Powell, il colonnello Lawrence Wilkinson, creò una cabala neo-con sul vicepresidente Dick Cheney, guidato dal suo vecchio amico e capo, il ministro della Difesa Donald Rumsfeld, a proposito del caos nato dopo l’invasione dell’Iraq.
All’inizio del 2006, sei generali dell’esercito e della marina Usa non più in servizio denunciarono il modo in cui il Pentagono aveva gestito la guerra in Iraq, un’opinione condivisa dal 75% degli ufficiali in missione e forse non solo (Rumsfeld fu infine costretto a dimettersi). I generali che parlarono non erano più in servizio, tuttavia avevano credenziali importanti. Il generale Paul Eaton, il primo a denunciare, era stato il responsabile dell’addestramento delle forze irachene fino al 2004. Affermò: “Ho visto diventare dominante l’opinione di una minoranza e una crescente riluttanza da parte di militari e civili esperti di mettere in discussione i dogmi imposti”. Il generale Gregory Newbold, responsabile delle operazioni dello Stato maggiore interalleato fino all’inizio della guerra, accusò Rumsfeld, Wolfowitz e Douglas Feith di “quell’imperizia e millanteria che sono prerogativa esclusiva di coloro che non hanno mai dovuto eseguire queste missioni – e nasconderne i risultati”.
Tra gli altri generali che si espressero contro il Pentagono, il generale James Marks, un veterano dell’Iraq fuori servizio e analista militare, affermò che “evidentemente sarebbe stata necessaria la presenza di un numero maggiore di forze sul campo di battaglia”. Il generale Eric K. Shinseki, il quale aveva avvertito il Congresso prima della guerra che dopo l’invasione sarebbero occorse centinaia di migliaia di uomini per pacificare l’Iraq, non ricevette più alcuna promozione. Il generale John Batiste, a capo della prima divisione dell’esercito in Iraq, accusò Rumsfeld di non aver mai accettato i consigli dei comandanti che erano sul campo di battaglia. Anche il generale John Riggs mosse questa accusa. Il generale Charles J. Swannack, ex comandante dell’82° divisione aerea, era convinto che “gli Stati Uniti avrebbero potuto dar vita a un governo stabile in Iraq”, ma che Rumsfeld aveva gestito male la guerra.
Venga il Messia armato Petraeus!
La nomina del generale Petraeus come comandante delle forze americane e della Nato in Afghanistan al posto di Stanley McChrystal è di fatto una degradazione poiché, in qualità di capo del Comando Centrale, Petraeus era stato in precedenza un superiore di McChrystal. Potrebbe trattarsi di una mossa (da politico) con cui Obama ha “sistemato” il generale Petraeus, che è dotato di lungimiranza politica, ha numerosi sostenitori politici e avrebbe ambizioni politiche personali (per le elezioni del 2012). Ma per uscire dal pantano afghano avrebbe bisogno di un miracolo.
Il cosiddetto “successo della rivolta” in Iraq sotto il generale Petraeus non è altro che una leggenda creata dalla stampa Usa e venduta dal Pentagono a un pubblico americano credulone. In realtà Petraeus non ha fatto altro che inviare soldati americani pieni di denaro presso alcuni gruppi scelti della resistenza sunnita che si opponevano strenuamente all’occupazione statunitense, combattendo allo stesso tempo conto il governo sciita di Baghdad e le sue varie milizie. La “rivolta” e gli attacchi condotti dalle forze Usa e dalle milizie sciite hanno scatenato una pulizia etnica, spingendo le comunità miste sciite-sunnite nelle regioni della propria comunità. Ma la guerra tra sciiti e sunniti in Iraq non è affatto terminata e ogni giorno provoca la morte di almeno 300 civili, anche se questo numero è diminuito molto dopo che le truppe Usa (meno di 90 000 uomini attualmente) hanno accettato di rimanere confinate nelle loro basi, evitando così che la resistenza attaccasse i soldati Usa uccidendo allo stesso tempo numerosi civili iracheni.
L’eminente giornalista Pepe Escobar ha scritto: “Petraeus non ha mai posto fine alla guerra civile tra sunniti e sciiti in atto in Iraq tra il 2006 e il 2007. Ha provato a marginalizzare i sadristi e ha fallito miseramente. Oltre a distribuire una montagna di dollari, non ha fatto altro che uccidere – usando gli squadroni della morte di McChrystal – i capi di numerosi gruppi di resistenza, costruire un’infinità di posti di controllo e creare un orrendo apartheid di cemento a Baghdad (un fattore chiave che ha portato il tasso di disoccupazione in città all’80%).
Non bisogna dimenticare che, secondo il sito Informationclearinghouse.info, su una popolazione totale di 25 milioni, oltre un milione e trecentomila iracheni sono rimasti uccisi, milioni di persone sono rimaste ferite in modo permanente e più di 2 milioni di persone hanno cercato un rifugio in Siria, Giordania e nello stesso Iraq. Inoltre, oltre 4500 soldati Usa sono stati uccisi, diverse decine di migliaia ferite, anche in modo permanente. Il vice presidente Biden ha parlato dell’arrivo di una forza di pace delle Nazioni Unite dopo il ritiro delle forze Usa. Lo Stato dell’Iraq, creato dalla potenza imperialista del XX secolo unendo tre province ottomane, è oggi lacerato, in uno stato di caos provocato dalla nuova potenza imperialista: gli Stati Uniti.
Per quanto riguarda l’Afghanistan, la composizione demografica e la geografia del paese sono differenti. I Pashtun accetteranno le mazzette offerte loro da Petraeus (dopo tutto, l’Afghanistan è il secondo paese più corrotto al mondo dopo la Somalia). Quello che è certo è che i Pashtun saranno davvero contenti di accettare il denaro senza dover scappare, ma solo aspettare, proprio come stanno facendo i sunniti in Iraq.
Per quanto riguarda lo zoccolo duro della contro rivoluzione (COIN) di McChrystal (“assalta, ripulisci e controlla” e costruisci una “governance” locale), la rivoluzione in Afghanistan non è stata altro che una ripetizione di quello che avevano fatto gli squadroni della morte del Pentagono in Iraq, ovvero una COIN pianificata dallo stesso Petraeus. Facendo molto chiasso, McChrystal ha fallito. Non è possibile conquistare i cuori e le menti dei civili Pashtun radendo al suolo i loro villaggi con le bombe e uccidendo i loro figli, figlie e sposi.
Il prof.Kennedy a proposito del ritiro degli Usa dall’Aghanistan: “testa, si perde; croce, non si vince”
Sperando che qualcuno al Comitato per la Sicurezza nazionale o al Dipartimento di Stato stia pianificando una strategia per un ritiro lento ma regolare delle forze Usa, il prof.Kennedy afferma chiaramente che “la questione Afghanistan-Pakistan è talmente intricata e complicata che avrebbe messo alla prova il buon senso dei più grandi condottieri e strateghi del passato. Non è del tutto irrealistico immaginare Augusto, William Pitt il vecchio, Bismarck o George Marshall mentre studiano la cartina che mostra le terre che si estendono dalla valle della Beqa’ fino al passo Khyber. A nessuno sarebbe piaciuto quello che stavano osservando”. Considerando le distanze, la conformazione geografica poco felice e la prontezza della parte nemica ad accettare un alto numero di perdite, non è stata una scelta avveduta quella di fare una guerra limitata, finemente calibrata. Dopo aver parlato con persone che hanno vissuto la realtà della guerra in Afghanistan, Kennedy crede che gli Stati Uniti “come minimo non possono ‘vincere’ nell’accezione che ha questa parola secondo gli impulsivi membri del Congresso e i fanatici quotidiani di Murdoch, una vittoria distorta grottescamente dalla loro abitudine di utilizzare il lessico del football americano: attacca, conquista, schiaccia, annienta”.
L’abbandono non dovrebbe essere interpretato come un segno di debolezza perché gli Stati Uniti “non sarebbero i primi a lasciare a sé stesse quelle montagne infelici con le loro tribù bellicose; gli Usa andrebbero semplicemente ad aggiungersi alla lunga lista degli eserciti d’occupazione che alla fine hanno deciso che sarebbe stato meglio lasciare quei territori. Lord Salisbury, tre volte primo ministro inglese e quattro volte ministro degli esteri, una volta disse che niente è più fatale per una strategia saggia di un attaccamento a tutti i costi a una politica ormai morta”. Ma Kennedy ritiene che “sono pochi i capi di governo determinati a cedere; e francamente, nel caso dell’Afghanistan, un compromesso morbido, ovvero un ritiro semicamuffato, potrebbe risultare la maniera meno peggiore di andare via, almeno per ora. Magari non per sempre.”
Conclusioni
Quello che i vari soggetti coinvolti in Afghanistan desiderano e possono ottenere è difficilmente pronosticabile. La superpotenza Usa non può nemmeno tentare di ottenere ciò che impose agli afghani nel 2002. Siamo nel 2010. I Pashtun saranno determinati. Se riusciranno a riunirsi, potranno eliminare la Linea Durand, imposta dagli inglesi ma insostenibile. I Pashtun sono omogenei da un punto di vista etnico, obbediscono alla dottrina deobandi, hanno legami con i paesi vicini e Dubai grazie all’oppio e al commercio di contrabbando, persino una bandiera e un leader, come il Mullah Omar. Ma è molto probabile che in primo luogo essi combatteranno tra loro, come accadde dopo l’abbandono delle truppe sovietiche. Ma a differenza della metà degli anni novanta, dopo ciò che l’esercito pakistano – composto in prevalenza da individui del Punjab – fece su ordine di Washington causando innumerevoli morti con gli aerei radiocomandati nel Pakistan nordoccidentale e in Afghanistan, è improbabile che i Pashtun si lasceranno manipolare dall’ISI. E se nascerà uno Stato pashtun, bisogna chiedersi cosa accadrà alle altre province del Pakistan, che non è riuscito a creare un’identità nazionale basata sul territorio.
E chissà cosa accadrà alla popolazione afghana di etnia non pashtun, che costituisce almeno il 60% della popolazione e che si oppone alla dominazione e all’ideologia taliban/pashtun, proprio come quando i taliban riuscirono a prendere il potere su gran parte dell’Aghanistan. A parte Karzai, un Pashtun, gran parte della classe dirigente è costituita da non Pashtun che si erano opposti ai Taliban nell’Alleanza del Nord. Essi avranno il supporto dei paesi vicini, come l’Iran, l’Uzbekistan e di altri attori, come Mosca, in ascesa, e Nuova Delhi, economicamente importante. Si consideri inoltre Pechino, che sogna di collegare la sua turbolenta provincia dello Xinjiang a maggioranza uigura al porto di Gwadar in Beluchistan, sul Mar arabico, per trasportare l’energia proveniente dal Golfo aggirando così le insicure rotte marittime attraverso l’Oceano Indiano e lo stretto di Malacca, un progetto che Washington cercherà in ogni modo di ostacolare. Allo stesso modo, neanche Mosca e l’India vorrebbero il progetto si realizzasse.
Ci si domanda inoltre cosa accadrà se gli Stati Uniti, come pianificato, manterranno alcune basi militari almeno nella parte nordoccidentale dell’Afghanistan a prevalenza non pashtun e se staccheranno il Beluchistan ricco di minerali (le vecchie informazioni sulle vaste risorse minerarie sono state messe in risalto solo per trovare una giustificazione agli occhi della popolazione americana, ormai disillusa riguardo alla guerra infinita nelle montagne e nei deserti dell’Afghanistan). Quali saranno le conseguenze del sostegno del dissenso in Kirghizistan da parte degli Stati Uniti, mentre negli Stati multietnici della pianura di Fergana aumentano l’instabilità e il caos, come in Afghanistan, assediando l’Asia centrale e lo Xinjiang? Nuova Delhi deve tenere presente che, a prescindere dalla maniera in cui si risolverà la questione afghana, prima o poi i Pashtun cercheranno di stringere buone relazioni con l’India. Quest’ultima deve ristabilire dei contatti con i taliban e con gli altri leader.
Ecco quali sono in sintesi i problemi e le possibili vie d’uscita dal tunnel afghano, che presenta una flebile luce alla fine. Ci sono anche altri tunnel, come quello in Iraq in cui gli Stati Uniti sono entrati nel 2003, e il problema fondamentale della Palestina, mentre Israele non perde di importanza malgrado il ridimensionamento degli Stati Uniti, dopo che la Russia ha ristabilito la propria influenza in Ucraina, che la sua alleata Georgia è stata duramente colpita da Mosca due anni fa e che la posizione degli Stati Uniti comincia a vacillare in Kirghizistan.
Solo se avessimo un polpo, come quello che in Germania ha previsto con esattezza i risultati dei mondiali di calcio, potremmo anche noi vedere il futuro e predire ciò che accadrà.
Traduzione dall’inglese a cura di Sivia Zirone
K. Gajendra Singh, ex ambasciatore indiano, è stao ambasciatore in Turchia e Azerbaijan dall’agosto del 1992 all’aprile del 1996. In precedenza, aveva rivestito temporaneamente il ruolo di ambasciatore in Giordania, Romania e Senegal. Attualemtne è presidente della Foundation for Indto-Turkic Studies.
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