Lo scorso 1 luglio il Parlamento del Costa Rica ha rinnovato l’accordo con gli Stati Uniti, come ogni anno ormai dal 2000, per la lotta contro il narcotraffico e per la realizzazione di operazioni militari e azioni umanitarie nella regione, per il periodo compreso tra il 1 luglio e il 31 dicembre 2010. L’accordo, approvato con 31 voti a favore e 8 contrari, è inserito nel capitolo Sicurezza del Trattato di Libero Commercio (TLC) firmato tra gli Stati Uniti e il piccolo Paese centroamericano.
La definizione dell’accordo ha sollevato non poche perplessità soprattutto in considerazione del fatto che, come è stabilito nella Costituzione costaricana, il Paese non possiede un esercito e vieta la presenza di forze armate straniere nel proprio territorio, proclamando la nazione una zona di pace. Di fatto, a seguito dell’entrata in vigore dell’accordo, la sproporzionata e massiccia presenza militare statunitense dispiegata nel Paese centroamericano sembra essere una parte di un piano di espansione militare degli Stati Uniti nel tentativo di aumentare la propria egemonia e controllo nella regione latinoamericana.
L’accordo è stato fortemente criticato in ragione delle differenze rispetto a quelli siglati in precedenza. È stato, infatti, previsto un aumento dell’equipaggiamento militare fissando la possibilità di ingresso di 7.000 marines statunitensi con immunità diplomatica, 46 navi da guerra, 200 elicotteri, 10 aerei da combattimento Harrier e una portaerei. In secondo luogo, il Presidente costaricano Laura Chinchilla ha annunciato la sua intenzione di rivedere gli accordi anti-droga sottoscritti con Washington per ampliarli alla vigilanza marittima, oltre che aerea.
La notizia del rinnovo dell’intesa, diffusa nello Stato costaricano con ritardo rispetto all’approvazione dello stesso, ha provocato numerose polemiche sia all’interno del Paese, che nel 1948 per opera dell’allora presidente Jose Pepe Figueres è stato abolito l’esercito e sono stati proclamati la neutralità e il disarmo come valori fondamentali della cultura costaricana, sia nella regione latinoamericana, che da sempre ha visto con sospetto qualsiasi dispiegamento del potere militare statunitense.
Una prima riflessione può esser fatta in merito alle caratteristiche dei mezzi che verranno dispiegati nel territorio. Secondo quanto riportato dalla stampa locale, la maggior parte delle navi da guerra sono lunghe circa 135 metri, capaci di trasportare 2 elicotteri artigliati SH-60 o HH-60B Blackhawk. Sono inclusi anche navi e una portaerei (lunga circa 258 metri), come l’USS Making Island, che oltre ad essere in grado di trasportare 102 ufficiali e 1500 marines, sono preparati per un eventuale combattimento intensivo. Infine, è stato autorizzato l’ingresso di sottomarini e veicoli da combattimento, con capacità operativa via terra e via mare, e navi USS Freedom, in grado di combattere contro dei sottomarini.
Alla decisione del governo si sono opposti l’opinione pubblica e i partiti di opposizione che hanno definito la misura come “un’occupazione militare”, illegale e violante la sovranità della nazione, convertendo il territorio in un obiettivo militare. L’opposizione politica, e in particolare Luis Fishman, deputato del Partito Unità Sociale Cristiana (PUSC, centro destra) ed ex ministro della Sicurezza, ha presentato ricorso presso la Corte Costituzionale contro l’autorizzazione presa dal Parlamento perché il timore ultimo è che in virtù di questa sarà possibile trasformare il Paese nella più grande base navale statunitense al mondo.
Le critiche provenienti dagli altri Paesi della regione latinoamericana, prime fra tutte quelle del presidente venezuelano Hugo Chávez, hanno puntato l’accento sul fatto che il permesso concesso dall’Assemblea Legislativa costaricana comporterà l’installazione di vere e proprie basi militari. L’obiettivo annunciato è combattere il narcotraffico, ma in realtà ci sono buone ragioni per credere che si tratti di azioni volte a destabilizzare la regione.
L’intesa costaricana-nordamericana è stata oggetto di critiche non solo in ragione della natura neutrale del Paese, ma soprattutto perché il Costa Rica non ha un volume di produzione di droga paragonabile a quello del Perù e della Colombia, e quindi se questo non è definibile una minaccia regionale, per quale motivo è stato necessario dispiegare un quantitativo di armi e soldati di tale entità?
Il susseguirsi degli eventi verificatesi dall’anno scorso a oggi permette di arrivare alla conclusione che la strategia degli Stati Uniti, basata sulla stipulazione di accordi per la lotta contro il narcotraffico, è un modo sia per riacquisire la propria egemonia nella regione latinoamericana sia per accerchiare militarmente il Venezuela, principale nemico della regione.
Alla fine del 2008 è stata riattivata la IV Flotta per rinforzare il Comando Sud degli Stati Uniti che supervisiona l’America Latina in caso di crisi. Nell’ottobre del 2009 gli Stati Uniti firmano un accordo militare con la Colombia, che permette a Washington di usare sette basi militari colombiane, oltre qualsiasi altra installazione militare necessaria per il raggiungimento delle operazioni e missioni statunitensi in Sudamerica. La questione sin da subito divise i Paesi della regione soprattutto in ragione della scoperta di un documento ufficiale dell’Aereonautica statunitense, datato maggio 2009, in cui si sostiene che la presenza nordamericana in Colombia è necessaria per eseguire operazioni militari di ampio raggio in tutto il continente. In aggiunta, il documento riportava che dalla Colombia le forze statunitensi combatteranno la costante minaccia proveniente dai governi anti statunitensi nella regione, facendo riferimento implicito ai vicini di Bogotà quali il Venezuela, l’Ecuador e la Bolivia considerati come avversari.
Negli ultimi quattro anni, inoltre, Washington ha aumentato la presenza militare nelle isole di Aruba e Curazao, che si trovano a meno di 70 chilometri della costa venezuelana, nelle quali dal 1999 mantiene delle piccole basi come Posti per Operazioni Avanzate (Puestos de Operaciones Avanzadas, FOL). E ancora: a Panama alla fine del 2009 è stata approvata l’installazione di 4 basi militari e, infine, dopo il terremoto di Haiti in gennaio, 20.000 sono i marines statunitensi inviati, quantità definita sproporzionata nel piccolo Paese caraibico, il quale in questo modo è stato convertito in un grande piattaforma militare.
Da ciò si evince che la relazione di egemonia o di dominazione instaurata dagli Stati Uniti in America Latina, in ultima istanza, è mantenuta con la forza militare, anche se solo in maniera potenziale.
A fronte di questo aumento della presenza statunitense nella regione si registrano due tendenze: da un lato, si è assistito a una maggiore dinamicità di alcuni Paesi (il Brasile ad esempio), che si è tradotta in un incremento delle relazioni economiche con l’Europa, la Russia, la Cina e con altri Paesi che sono visti con ostilità dalla Casa Bianca, prima fra tutti l’Iran (si ricordi l’accordo sul nucleare, firmato il 17 maggio scorso fra Brasile, Turchia e Iran); dall’altro, si è riscontrato un rafforzamento dei meccanismi di integrazione politica ed economica regionale, tra questi in particolare l’ALBA e l’UNASUR, che minacciano l’egemonia nordamericana, così come era già stato segnalato espressamente nel documento dell’Aereonautica del 2009.
Quale l’obiettivo statunitense? La risposta può essere trovata nel documento dell’Aereonautica poc’anzi menzionato: lo scopo della presenza militare è migliorare la capacità degli Stati Uniti di rispondere più rapidamente a un’eventuale crisi e, allo stesso tempo, assicurare il facile accesso alla regione a un costo minimo.
Accanto a questi processi, bisogna tenere in considerazione una serie di avvenimenti, sempre legati all’aumento dell’egemonia statunitense nella regione, che non hanno richiesto la loro diretta partecipazione. Innanzitutto, il colpo di Stato verificatosi in Honduras nel giugno del 2009 che depose il Presidente Manuel Zelaya, in cui si è assistito a un atteggiamento variabile nordamericano: da espressioni di disapprovazione poco convincenti per l’accaduto, alla parodia della negoziazione, per finire all’appoggio al governo ad interim di Micheletti impostosi con il Colpo di Stato. A prescindere dalle voci che furono diffuse circa una possibile partecipazione nordamericana al Golpe, quest’ultimo ha avuto in ogni caso l’effetto desiderato: non solo disfarsi Zelaya, alleato del Presidente venezuelano Hugo Chávez, ma anche inviare un messaggio alla regione con cui si sottolineava la partecipazione statunitense alle vicende latinoamericane. Attraverso il Golpe, il Centro America, che sembrava stesse cominciando ad allinearsi verso i processi di integrazione regionale, è tornato ad schierarsi con Washington. Sia il Presidente Funes in El Salvador sia il Presidente Colom in Guatemala, che mesi fa avevano manifestano la loro intenzione di avvicinarsi all’ALBA, hanno preso le distanze, forse al fine di evitare una sorte simile a quella di Zelaya.
Altro fatto da tenere in considerazione riguarda l’Accordo di Sicurezza tra la Colombia e l’Honduras entrato in vigore lo scorso febbraio, che ha come obiettivo la lotta contro il terrorismo e il narcotraffico, in termini per nulla differenti rispetto a quelli proclamati da Washington. A questo quadro, se si aggiunge il rafforzamento del Plan Merida, iniziativa avviata per la “Guerra contro le droghe” in Centro America e Messico, si ottiene il panorama completo dell’aumento della presenza politica e militare degli Stati Uniti nella regione latinoamericana.
Concludendo, è possibile affermare che il rinnovo dell’accordo tra il Costa Rica e gli Stati Uniti è parte integrante della strategia nordamericana volta ad acquisire importanza in un regione come quella latinoamericana in cui i meccanismi di integrazione regionale stanno dando i loro risultati. Si assiste, infatti, da un lato a una maggiore indipendenza e autonomia delle nazioni latinoamericane, e dall’altro alla presenza di Paesi, primi fra tutti il Brasile e il Venezuela, che sono in lotta per il raggiungimento di una leadership regionale.
* Valeria Risuglia è laureata in relazioni iinternazionali presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma