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Unione Europea: un’alternativa potenziale nell’area del Pacifico?

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Le relazioni internazionali e la geopolitica del XXI secolo si caratterizzano indubbiamente per la centralità e la strategicità del continente asiatico: se il Medio Oriente e l’Asia Centrale sono tra gli scenari politico-economici più importanti a livello globale, il Sud Est asiatico appare oggi essere una regione cruciale sia per le relazioni economiche che per quelle politico-militari su scala regionale e mondiale. In un contesto in cui si inseriscono e crescono le influenze provenienti dalla Cina e, in minor misura dagli Stati Uniti, l’Unione Europea è chiamata a svolgere un ruolo importante: continuare ad essere per i Paesi appartenenti a quest’area un interlocutore fondamentale, non solo dal punto di vista economico, ma anche politico. Solo in questo modo Bruxelles potrebbe essere in grado di assicurare un’effettività al dialogo inter-regionale fra Europa e Asia Sud-Orientale e di garantire la presenza degli interessi europei nel Pacifico.

Il modello europeo

Il modello e l’idea di organizzazione “regionale” europea – sorta dopo la seconda guerra mondiale e dopo la decolonizzazione, e intrecciatasi con le logiche della Guerra Fredda – ha giovato nell’avviare all’interno di quei Paesi asiatici, che per lungo tempo sono stati legati all’Europa a causa degli imperi coloniali, un processo di costruzione propria regionale e ha contributo a definire in un secondo momento, come vedremo, un’identità del Sud-Est asiatico.

Mentre l’Europa muoveva i primi passi verso lo spazio economico comune e, soprattutto, il tentativo di creare un’entità sovranazionale anche in materia di difesa (Unione Europea Occidentale e Comunità Europea di Difesa, la quale non ha mai visto la luce) in un continente segnato dalla logica dei blocchi contrapposti, i Paesi del Sud-Est asiatico aderivano alla “Southeast Asian Treaty Organization” (SEATO, 1954): questa prima forma organizzativa a carattere strategico – militare nacque per fronteggiare il pericolo proveniente dai Paesi comunisti dell’Asia, Cina in primis. Il fallimento della SEATO, come fu evidente durante la guerra del Vietnam, portò i Paesi di quest’area a cercare nuove vie autonome e concordate per una più ampia integrazione regionale: l’“Association of Southeast Asia” (ASA), la “Maphilindo” (un’associazione fra Malaysia, Filippine ed Indonesia) e l’“Asian Pacific Council” (ASPAC) negli anni Sessanta, sulla scia del dibattito che animava le prime politiche comunitarie, furono gli esempi di realizzazione autodeterminata di un’effettiva organizzazione regionale dedita alla cooperazione economica e culturale fra i Paesi membri. L’ulteriore insuccesso di queste formule associative portò alla creazione della forma più matura di integrazione regionale del Sud-Est asiatico: l’“Associazione delle Nazioni dell’Asia Sud-Orientale” (ASEAN, 1967, di cui fanno parte Thailandia, Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore e a cui si sono aggiunti successivamente anche Brunei, Vietnam, Laos, Birmania e Cambogia).

Questa nuova entità, data la sua strategicità tra l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico, ben presto non solo ha stipulato accordi di cooperazione e associazione con la Comunità Europea instaurando un’importante partnership economica, ma è diventata – come l’“Asean Regional Forum” (ARF, 1994) e, soprattutto, l’“Asia-Pacific Economic Cooperation” (APEC, 1989, di cui fanno parte anche Cina, Russia e Stati Uniti) dimostrano – anche una regione fondamentale negli equilibri geostrategici del Pacifico in cui, date alcune fondamentali premesse, l’Unione Europea ha tentato di estendere la sua presenza.

Il dialogo inter-regionale

Infatti, dopo l’accresciuta visibilità internazionale conferita dal Trattato di Maastricht e l’avvio a livello globale da parte dei Paesi asiatici sud-orientali dell’“Asean dialogue partners”, il modello europeo è rimasto un punto di riferimento per il Sud-Est asiatico dopo la fine della contrapposizione est-ovest e fino al momento della crisi finanziaria che l’ha colpito fra il 1997 e il 1998: su proposta del Primo Ministro di Singapore è stato avviato l’“Asia-Europe Meeting” (ASEM, 1995), un dialogo inter-regionale con lo scopo di creare non solo più stretti legami commerciali e politici con un’Unione Europea all’epoca in corso di espansione, ma anche per far crescere il Sud Est asiatico sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista strategico, cercando cioè di bilanciare il potere di Giappone e Cina e di limitare l’influenza americana nel Pacifico.

L’ASEM ha rappresentato nel corso degli anni Novanta (e potrebbe rappresentare ancora oggi) uno degli strumenti principali della politica estera dell’Unione Europea ed ha indubbiamente contribuito allo sviluppo dell’Asia Sud-Orientale in più sensi: in primo luogo, l’ASEM ha permesso di rafforzare i vincoli commerciali, facendo dell’UE il secondo mercato di esportazione dei prodotti dei Paesi dell’ASEAM e il terzo partner commerciale dopo Stati Uniti e Giappone. Inoltre, il dialogo inter-regionale, avendo come presupposto il tentativo di costruire un’interdipendenza economica e politica fra Europa e un terzo polo regionale nel Pacifico, ha contribuito a creare e a diffondere un senso di identità regionale dell’Asia Sud-Orientale. Infine, l’ASEM ha permesso all’Unione Europea non solo di ridefinire le proprie relazioni con l’intero continente asiatico – a cominciare dall’“Associazione Sud-Asiatica per la Cooperazione Regionale” (SAARC) –, ma anche di creare un blocco di relazioni geopolitiche alternativo all’APEC, concorrendo direttamente con gli interessi di Stati Uniti e Cina su scala regionale e mondiale e costituendo un ambizioso progetto di gestione delle relazioni in un mondo globalizzato. La forza dell’ASEM è sembrata risiedere nel fatto che essa offre un nuovo canale di comunicazione e la possibilità di connettere fra loro Stati e organizzazioni appartenenti a due aree geografiche differenti e con una storia politica ed economica distante. Ma quanto è stato ed è effettivo questo inter-regionalismo? L’Europa è ancora così influente nella regione asiatica?

La crisi del modello europeo

La crisi economica che ha colpito i mercati finanziari sud-orientali alla fine degli anni Novanta sembra aver segnato, infatti, una svolta nei rapporti UE-ASEAN e, soprattutto, nell’idea che i Paesi dell’ASEAN hanno dell’Unione Europea stessa. I Paesi del Sud-Est asiatico sono sembrati progressivamente allontanarsi dell’Europa, manifestando scetticismo nei confronti della sua capacità di assurgere ad un ruolo di potenza globale con riferimento alle problematiche dell’area pacifica e allacciando forti relazioni con altri Paesi.

Come un rapporto del Comitato Economico e Sociale Europeo dello scorso mese di maggio ha sottolineato, il dialogo inter-regionale degli ultimi anni è risultato piuttosto debole e il dialogo con e tra le società civili ha dimostrato di essere ancora al di sotto delle potenzialità. Così anche le relazioni economiche non hanno fatto il salto di qualità che si auspicava. Emblematico ed allarmante è il caso del negoziato commerciale: mentre l’UE e l’ASEAN hanno concordato una pausa nei negoziati, l’ASEAN ha stretto accordi commerciali con le altre principali realtà geo-economiche mondiali (Cina, India, Australia; negoziati sono in corso con USA, Corea del Sud, Giappone).

L’Unione Europea, in effetti, nel corso degli ultimi dieci anni non è sembrata sforzarsi più di tanto nel consolidare il dialogo inter-regionale. Essa, piuttosto, è sembrata concentrarsi da un lato sul processo di allargamento interno e sulla ridefinizione della propria architettura costituzionale (cosa che ha richiesto tempo e denaro) e, dall’altro, sull’instaurazione di rapporti bilaterali con le altre potenze mondiali. Inoltre, nel corso delle conferenze dell’ASEM sono venute a galla differenze di fondo tra le due regioni, come il nodo del rispetto dei diritti umani in alcuni Paesi del Sud-est asiatico (innanzitutto il Myanmar) e l’eccessiva eterogeneità dei Paesi asiatici in questione che impedirebbe l’adozione di misure e politiche effettivamente incisive. Non di meno, la presenza di regimi dittatoriali all’interno dei Paesi asiatici sud-orientali e la mancanza di un principio di sovranazionalità nella organizzazione politica asiatica costituiscono un ostacolo per i leader politici europei e per il perseguimento degli obiettivi che l’inter-regionalismo si era prefisso. Infine, la progressiva ingerenza economica, politica, militare e culturale in quest’area dell’Asia da parte della Cina dopo l’ingresso nella World Trade Organization, unita alla crisi (e alla ricerca) di identità dell’Unione Europea e alla sua incapacità di adottare una visione globale nelle sue relazioni con l’Asia, hanno fatto in modo che l’ultimo decennio sia stato più “un’occasione mancata” che l’occasione per rafforzare la partnership con un’area considerata strategica per gli interessi dell’UE nel mondo.

L’ASEM, dunque, è sembrata essere una formula più simbolica che di sostanza e, quanto alla sua capacità di concorrere con l’APEC, essa, non essendo un’alleanza strategica, non è riuscita ad incidere sul bilanciamento dei poteri nel Pacifico, configurandosi, piuttosto, come uno strumento di “soft power”. Come l’Unione Europea può rispondere, allora, alla perdita di centralità nelle politiche asiatiche sud-orientali?

Le prospettive future

Probabilmente il futuro del dialogo inter-regionale fra Europa e ASEAM dipenderà da una serie di circostanze: innanzitutto dalla capacità dei due blocchi regionali di istituzionalizzare l’ASEM – eventualmente instaurando un meccanismo di “dialogo permanente” fra i leader politici – facendo si che si possa, da un lato, sviluppare il dibattito e l’effettività del rispetto dei diritti umani e, dall’altro, si possano colmare alcune differenze politiche e sociali tra i Paesi del Sud-Est asiatico e tra questi stessi e l’Unione Europea. Solo una comunanza di prospettive a livello politico e culturale potrebbe permettere il rilancio e l’implementazione della cooperazione economica, di un’area di libero scambio e della politica di cooperazione allo sviluppo. In secondo luogo, il futuro dell’ASEM dipenderà dall’evoluzione delle relazioni dell’Unione Europea con Cina e Giappone, nonché anche dalle relazioni fra Cina e Giappone stessi e dall’eventuale realizzazione del recente progetto americano di estendere la “Trans-Pacific Partnership” (TPP, che attualmente comprende Brunei, Singapore, Nuova Zelanda e Cile) anche agli USA, oltre che ad Australia, Perù e Vietnam.

Dal punto di vista della capacità di costruire, infatti, un modello alternativo all’APEC, i leader comunitari dovranno adottare nei confronti dei Paesi asiatici un approccio multilaterale, ossia considerare l’Asia non come un insieme di macroregioni, ma come il territorio di una possibile rete di rapporti tessuti sulla base di esigenze macroregionali inquadrate sullo sfondo più ampio di ciò che il continente asiatico rappresenta nella sua specifica globalità.

Dal momento che chi scrive ritiene che uno dei fattori principali della perdita di centralità dell’Europa nel Sud-Est asiatico risieda nella sua stessa incapacità di costituire un modello culturale come aveva fatto tra gli anni Cinquanta e Sessanta, uno strumento importante potrebbe essere – come il Comitato Economico e Sociale Europeo suggerisce – l’istituzione di una “fondazione europea” orientata specificatamente al dialogo sociale, civile, professionale ed interculturale UE-ASEAN. La capacità di diventare una potenza globale e concorrere in un “sistema uni-multipolare” passa, probabilmente, anche dalla capacità di presentarsi come un modello politico – sociale – culturale stabile e determinante nei rapporti di forza mondiali.

* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)

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