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Mar Cinese Meridionale: il conflitto per la supremazia regionale visto dai “piccoli” Stati

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1. Introduzione

Il Mar Cinese Meridionale è teatro di un vasto conflitto carsico che coinvolge nazioni leader a livello globale, medie potenze e altri Stati del Sudest Asiatico. Un avvenimento recente ha fatto risorgere la questione: nell’aprile 2010, la flotta meridionale cinese ha condotto delle esercitazioni militari, simulando una battaglia navale con la flotta cinese proveniente dal nord e quando quest’ultima tornava ai porti di origine, la flotta orientale ha condotto altre esercitazioni nello stretto di Luzon. È la prima volta che la Cina ostenta un tale spiegamento di forze.
Mentre al riemergere di questo conflitto i riflettori sono puntati quasi esclusivamente verso Cina e Stati Uniti, in Europa viene dato poco spazio agli altri attori, che hanno dinamiche ed interessi altrettanto concreti e ben più diretti rispetto ai due grandi protagonisti. In Italia è pressoché sconosciuto.
L’obiettivo di questo articolo è fornire una panoramica generale di questo contenzioso, analizzare i rapporti di forza dei “piccoli” Stati, formulando nelle conclusioni possibili soluzioni, seppur parziali, a loro favore.

2. Alle radici del conflitto

Il Mar Cinese Meridionale è la rotta più breve per le linee di navigazione fra India e Cina e le rispettive periferie (Golfo Persico, Giappone e Corea). Su questo mare sono presenti due arcipelaghi oggetto di disputa territoriale da parte di tutti gli stati rivieraschi: le isole Paracel e Spratly.
Storicamente, queste isole erano conosciute come approdi per pescatori e cacciatori di tartarughe, ma sono sempre state utilizzate come transito e mai abitate in modo permanente data la ridotta dimensione delle isole: in concreto, le isole sono poche, mentre vi sono numerosi scogli, banchi e atolli, spesso esistenti solo con la bassa marea. Economicamente non avevano alcun valore, salvo per una risorsa utilizzata verso fine ‘800 e nella prima metà del ‘900: il guano, composto organico sfruttato da mercanti giapponesi come fertilizzante e combustibile. Dopo i giapponesi, nessuno ha più portato avanti lo sfruttamento di tale risorsa in modo effettivo.
Durante “il secolo Europeo” i due arcipelaghi erano considerati inizialmente solo un intralcio e pericolosi per la navigazione. Nel 1926, con la sempre maggiore ingerenza giapponese per apparenti fini commerciali (il guano sembra essere più una copertura per intaccare nei fatti il dominio europeo di quei mari), la Repubblica di Cina rivendica le due aree e nel 1930 la Francia le rivendica a sua volta come rappresentante dei diritti dell’Impero dell’Annam, che con l’imperatore Gia Long aveva ufficialmente rivendicato le isole Paracel già nel 1816. La Gran Bretagna dichiarò la sovranità per le Spratly nel 1877, ma il Foreign Office non protestò mai più di tanto sull’occupazione francese.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il Giappone rinuncia nei trattati di pace con i vari paesi, fra cui la Cina, a qualsiasi diritto sulle isole Paracel e Spratly (oltre che alle Pratas), senza però cedere formalmente tali diritti ad un altro Stato.
Dal 1951 al 1956 vi è una corsa per accaparrarsi le isole tra Taiwan, Francia (poi Vietnam del Sud) e Filippine, ma fino al 1974 la questione si cristallizza: nel 1974, mentre il Vietnam del Nord avanza verso il sud, la Repubblica Popolare Cinese occupa e scaccia l’esercito sudvietnamita dalle Paracel. Nel 1977 l’esercito cinese sbarca su 3 delle isole Spratly, già abbandonate dal regime di Saigon, il che innesca la rapida caduta dei rapporti fra Hanoi e Pechino: dato che il Vietnam era nuovamente un paese unito e non aveva più bisogno del supporto cinese, vennero portate di nuovo alla luce le ambizioni sui due arcipelaghi. A completare il quadro, Malaysia e Brunei Darussalam avanzano rivendicazioni rispettivamente nel 1979 e nel 1984.
Nel 1982, l’entrata in vigore della Convenzione di Montego Bay sul Diritto del Mare (United Nations Convention on the Law of the Sea – UNCLOS) porta ad una nuova fase di questo contenzioso: gli Stati possono dichiarare Zone Economiche Esclusive (EEZ) fino a 200 miglia nautiche dalla linea di base e sfruttare la Piattaforma Continentale fino a 350 miglia; all’interno delle EEZ gli Stati hanno un diritto esclusivo a sfruttare tutte le risorse [1].
Oggi, le Spratly sono in parte rivendicate da Brunei, Filippine e Malaysia, in toto da Vietnam, Repubblica Popolare Cinese e Repubblica di Cina (Taiwan): con l’eccezione del Brunei, tutti gli altri paesi occupano militarmente alcune isole, per garantire e rafforzare le loro rivendicazioni.
Per le Paracel, il contenzioso riguarda solo Vietnam, Cina e Taiwan. L’arcipelago è sotto controllo militare di Pechino. In entrambi i casi si è scatenata la guerra della toponomastica: Hoang Sa e Xisha sono i nomi rispettivamente vietnamita e cinese delle Paracel, mentre le Spratly sono conosciute come Truong Sa, Nansha e Kalayaan da vietnamiti, cinesi e filippini.

3. La posta in gioco

L’importanza di questo conflitto è da analizzarsi sotto 3 aspetti: logistico/commerciale, risorse ittiche, risorse energetiche, tutti strettamente legati alla sicurezza, militare e non, dei paesi parte nel contenzioso.
Dal punto di vista logistico, il Mar Cinese Meridionale risulta essere, su scala mondiale, la seconda rotta per il trasporto di container. Infatti, nel 2006 il 50% dei container transitava per questo mare, con una rotta fra le isole Spratly e le Paracel. Sempre nel 2006, 10 milioni di barili di greggio al giorno transitavano per lo stesso percorso.
Nei tempi antichi l’area risultava essere importantissima per il commercio fra Cina e India e oggi, con importanti paesi industrializzati e in via di industrializzazione, è la via per qualsiasi trasporto merci, oltre ad essere la via più semplice per l’approvvigionamento di petrolio dal Golfo Persico, non solo per l’Asia, ma anche per altri continenti. Un punto sensibile alla navigazione del Mar Cinese Meridionale resta tuttora lo stretto di Malacca, passaggio quasi obbligato e di sovraffollamento, zona che vede ancora la presenza di pirati. Non vi sono analoghi rischi di pirateria nell’area in esame, se non casi sporadici, ma sono state numerose le imbarcazioni appartenenti a Vietnam, Cina e Filippine sequestrate da uno di questi paesi con il pretesto di attività illegali nelle acque di competenza o violazione dei confini, soprattutto per la pesca.
Il diritto alla libertà di navigazione non è messo in discussione. Ciononostante, diversi stati asiatici e non, vedono con un certo timore le rivendicazioni nel Mar Cinese Meridionale, in primis nel caso che un conflitto possa arrecare danno al commercio di transito e in secondo luogo, ben più rilevante, esiste un certo timore di ritorsione economica nel caso fosse rallentato il traffico, di idrocarburi in primis. Una nazione come il Giappone, che dipende fortemente da risorse energetiche esterne, ha tutto l’interesse a mantenere ottimi rapporti con il Vietnam e le Filippine, mentre è noto l’attrito secolare che intercorre tra Tokyo e Pechino, a cui si aggiungono analoghe controversie nel Mar Cinese Orientale. Il progettato oleodotto e gasdotto che dovrebbe portare nuovo approvvigionamento dalla Russia non sarebbe sufficiente per ridurre la dipendenza dal Mar Cinese Meridionale. La Corea si trova in una situazione analoga.
La pesca è un argomento di grande importanza, anche se spesso sottostimato rispetto ad altre tematiche. I paesi della regione sono tra i maggiori produttori mondiali nei settori della pesca e dell’acquacoltura con ingenti introiti derivanti dall’export.
Dal punto di vista alimentare, i paesi rivieraschi del Sudest Asiatico ricevono il 50% delle proteine della loro dieta dal pesce e da prodotti marini. Quindi, oltre ad essere una importante risorsa economica è anche una risorsa culturale, nonché, ben inteso, una necessità per la popolazione. Con gli aumenti generalizzati dei prezzi delle derrate alimentari e con l’aumento del prezzo del gasolio anche per le imbarcazioni, portare avanti le proprie rivendicazioni per controllare vaste estensioni fornisce una maggiore sicurezza alimentare e permette, in parte, una migliore gestione e sostenibilità delle risorse ittiche nell’area di propria “giurisdizione”.
Fonti della FAO informano che oltre il 75% delle risorse ittiche mondiali è completamente sfruttato, sovrasfruttato o significativamente impoverito [2]: il Mar Cinese Meridionale non ne è immune e tale problema si riscontra in tutti i paesi rivieraschi. Anche se per questioni tecniche e tecnologiche la pesca d’altura non è molto praticata da questi paesi, le migrazioni di banchi di pesci verso le zone costiere non alleggeriscono il problema. Inoltre, paesi industrializzati come il Giappone (e Taiwan in scala ridotta) possiedono tale tecnologia e già da decenni i pescherecci nipponici solcano qualunque mare. Con la sua formidabile crescita economica, la Cina ha la possibilità di dotarsi di una moderna flotta, affiancando quindi il Giappone nello sfruttamento dei mari ad essa contigui.
Infine, il tema che risulta più delicato nella regione è la presenza di petrolio, gas e altri minerali sui fondali marini.
Le risorse accertate di petrolio nel Mar Cinese Meridionale risultano essere 7,7 miliardi di barili, ma si stima che vi siano riserve pari a 28 miliardi di barili e la presenza di oltre 753 miliardi di mc di gas naturale [3]. Al momento, i dati sono molto incerti e vi sono stati molti studi (non accessibili al pubblico) sulle potenziali riserve di gas e petrolio: la Cina stima rispettivamente 213 e 105 miliardi di barili fra Spratly e Paracel. Ma altri studi cinesi parlano di riserve equivalenti-petrolio di 225 miliardi di barili nelle sole Spratly di cui 60-70% in gas, ovvero 255 trilioni di mc, mentre un’altra stima per tutto il Mar Cinese Meridionale si eleverebbe a 566 trilioni di mc [4].
Fino ad oggi, non è stata portata a termine alcuna trivellazione per prospezione nelle aree contese, quindi non esistono stime di riserve provate nelle Spratly o nelle Paracel [5]. In particolare gli attriti tra Vietnam e Cina hanno fisicamente impedito le prospezioni petrolifere nell’area, a cui è seguito un ritiro volontario delle compagnie petrolifere stesse dalla parte sud del Mar Cinese Meridionale in mancanza di una sicura legittimazione. Nonostante altre zone siano molto ricche di petrolio e gas, non è possibile certificarne la presenza sul’area delle isole in discussione.
Vista la gran fame di energia che caratterizza sia i paesi industrializzati sia i paesi in via di sviluppo, sembra difficile avvicinarsi ad una soluzione del problema, particolarmente nelle Spratly.
Nel 1995 la Cina ha occupato il Mischief Reef erigendo costruzioni, ma una escalation armata è stata in parte scongiurata e i paesi ASEAN si sono accordati per cooperare in ricerca scientifica, contro pirateria e traffico di droga e hanno discusso sulle EEZ. Un ulteriore passo in avanti risulta dalla proposta congiunta di Vietnam e Filippine del 1999 sottoposta agli altri paesi dell’ASEAN che, nel novembre 2002, ha visto la nascita di un documento di Code of Conduct nel Mar Cinese Meridionale, firmato da tutti i paesi ASEAN e la Cina, in cui gli stati si impegnano a risolvere le loro controversie senza ricorrere all’uso della forza. Anche se nei fatti tale documento non assicura un comportamento corretto delle parti, fino ad ora tutti gli stati hanno sempre evitato l’uso della forza.
Vista l’importante valenza geopolitica dell’area, ogni paese sta portando avanti da diverso tempo le proprie strategie per vedere riconosciuti i propri diritti, aumentare il proprio peso o mantenere lo status quo. Ad ogni modo, tutte queste nazioni del Sudest Asiatico vedono la presenza cinese con diffidenza, con maggiore o minore intensità.

4. I paesi nel conflitto: punti di vista, dinamiche e forze in campo

Tra le nazioni in esame, il Vietnam ha un ruolo di primo piano alla luce delle sue capacità militari, economiche e demografiche che possono renderlo, in futuro, una Media Potenza e una Potenza Regionale nell’ambito del Sudest Asiatico. Oggi, gli analisti militari ed economici vedono il Vietnam come futuro leader in ambito ASEAN assieme all’Indonesia, leader storico dell’Associazione.
Tale disegno geopolitico è ben chiaro alla luce delle rivendicazioni di Hanoi: il Mar Cinese Meridionale dovrebbe diventare un “Mare Nostrum” con il possesso in toto di Paracel e Spratly e quindi far passare la rotta commerciale da e per lo stretto di Malacca quasi esclusivamente nelle proprie acque. Concretamente non ha alcuna presenza nelle Paracel, mentre oltre la metà delle Spratly è sotto controllo vietnamita.
Per quanto concerne le Spratly, nel 1988 vi è stata uno scontro navale (e sbarchi terrestri) fra le marine militari di Vietnam e Cina nei pressi del Johnson Reef, con 70 morti da parte vietnamita e limitate perdite e danni per i cinesi. Come risultato di questo scontro, Pechino riuscì ad occupare 6 ulteriori postazioni nelle Spratly a scapito di Hanoi.
Il Vietnam considera la presenza cinese minacciosa e porta avanti con forza la propria posizione e con la crescita economica sta effettuando un ammodernamento dell’apparato militare, navale in primis con l’acquisto di sommergibili russi. La Cina, dal canto suo, alterna momenti di quiete ad azioni mirate al possesso degli arcipelaghi. Un fatto di particolare tensione soprattutto per il Vietnam è l’annuncio del dicembre 2007 della costruzione di una città sulle isole occupate. La città è un pretesto, ma l’atto politico di integrarle amministrativamente con la provincia di Hainan ha scatenato manifestazioni degli studenti vietnamiti davanti all’ambasciata cinese. Ancora adesso risulta essere una protesta spontanea (ovviamente non frenata dal governo), la prima nella storia del Vietnam unito.
Le Paracel risultano molto più importanti per la sicurezza nazionale del Vietnam. Non solo il paese si vede fortemente limitato dal punto di vista marittimo, con la vicinanza di tali isole, ma eventuali postazioni militari cinesi risulterebbero ledere fortemente la sicurezza di tutto il paese, dal nord al sud. Data la distanza dagli estremi geografici del Vietnam, una base militare rappresenterebbe un ricatto verso il paese e una stazione di telecomunicazioni raccoglierebbe qualsiasi tipo di informazione. Ciononostante, le isole sono troppo piccole per poter collocarvi serie installazioni militari e il lavoro di Intelligence può essere svolto da satelliti con uffici a Pechino con le attuali tecnologie. Di rimando, il Vietnam potrebbe acquistarne anch’esse per il controspionaggio.
L’importanza è ulteriormente ridimensionata, ma sempre rilevante, dalla nuova base di sottomarini nucleari a Sanya, sulla costa meridionale dell’isola di Hainan. In tale ottica le Paracel rappresentano un bilanciamento, seppur minimo, a favore del Vietnam sia di natura difensiva sia territoriale verso sud, nel caso molto improbabile che ne riottenesse il possesso.
Il Vietnam ha tutte le intenzioni di far diventare la questione una priorità in ambito ASEAN visto il suo ruolo di presidente dell’Associazione nel 2010. Sia l’esercitazione militare della marina cinese l’aprile scorso sia il peso delle relazioni di Hanoi con alcuni stati ASEAN fanno presagire maggiori chances di riuscita.
Esistono forti difficoltà dato che nessun’altra nazione ASEAN rivendica le Paracel e difficilmente verrebbe a crearsi un fronte compatto in favore del Vietnam. Non essendo interessati e avendo comunque importanti legami economici e commerciali con la Cina, paesi come le Filippine, la Malaysia e il Brunei non vogliono inimicarsi Pechino, stessa cosa per altre nazioni più distanti (Singapore) o senza interessi marittimi (Thailandia). Nei fatti, tali ipotesi si sono concretizzate nel dicembre 2000, quando durante la delimitazione del Golfo del Tonchino fra Vietnam e Cina, il primo voleva includere nell’accordo un Code of Conduct anche per le Paracel, progetto non supportato in ambito ASEAN, forse per i sospetti di Brunei, Filippine e Malaysia nei confronti di Hanoi di fare delle Spratly una zona militarizzata (anche se il governo vietnamita sembra non considerare per nulla quest’ipotesi) e per la vastità dell’area rivendicata dai vietnamiti.

Le Filippine sono in prima fila nel contenzioso qui trattato reclamando la quasi totalità delle Spratly e pattugliano lo Scarborough Reef ad ovest di Luzon. Nel marzo 2009, con la Philippine Baselines Law, la presidente Arroyo ha rafforzato le rivendicazioni nell’area con un maggiore supporto legislativo.
Le Filippine sono le più vicine geograficamente alle Spratly, ma dopo il ritiro delle truppe statunitensi nel 1992 risultano avere un apparato di sicurezza particolarmente fragile che, aggiunto a problemi di natura interna, ne fanno l’attore più debole nel contenzioso.
La debolezza è visibile dalla presenza nell’area: solo una piccola parte del territorio controllato da Manila è direttamente occupata o a portata di controllo e di azione, mentre la gran parte è considerata “virtualmente” occupata, caso unico tra i paesi rivieraschi.
Questo stato di fatto è causa dell’incidente di Mischief Reef, che a sua volta ha causato una difficoltà cronica in azioni più o meno concrete a tutela delle rivendicazioni filippine. Nel 1995, le autorità filippine scoprirono nel Mischief Reef costruzioni in legno, rifugi per pescatori secondo i cinesi. A distanza di anni, le costruzioni si sono espanse col cemento comprendendo edifici circolari, molto verosimilmente radar. In aggiunta, esiste anche una mappa (non ufficiale) per nuove strutture, forse per l’attracco di navi e anche una pista aerea artificiale.
La gravità della situazione nasce dalle reazioni filippine che si sono fermate a livello verbale. La spiegazione sta nella fragilità dell’apparato difensivo filippino, ricordando quanto successe nel 1988 sul Johnson Reef al Vietnam, nazione con strutture militari ben superiori: è uno scenario plausibile ove uno scontro militare per un obiettivo termini nella caduta di molte più postazioni in mano ai cinesi.
Manila ha anche avuto una parentesi di apertura verso la Cina (con conseguente distacco dalla solidarietà creatasi in ambito ASEAN sul tema) tramite una missione scientifica comune avviata nel 2005 in una zona non ben precisata dell’area contesa a cui si è associato anche il Vietnam, fortemente contrario ma poi invitato a partecipare. Nel 2008 si è conclusa la missione con lo scambio di un numero elevato di informazioni tra le parti: la natura della missione non ha a che vedere con gli idrocarburi, ma diversi elementi della ricerca sono indirettamente un punto di partenza per successive azioni di prospezione.
Se da un lato questo episodio dimostra la fragilità filippina a portare avanti i suoi interessi in modo autonomo, dall’altro è un modo di controllare da vicino gli altri contendenti, oltre che ottenere una preziosa collaborazione in materia. Inoltre, se una tale iniziativa fosse stata unilaterale, è verosimile immaginare il tipico intervento della guardia costiera o della marina militare di uno dei paesi per far uscire la spedizione dalle acque in questione.
Nella zona di sovrapposizione tra Filippine e Malaysia vi sono solo 2 isole e la situazione sul campo non è tesa come in altri quadranti del mare. Esiste però una controversia che se riportata attivamente alla luce “allarga” fortemente il fronte: lo stato di Sabah.
Il North Borneo (oggi Sabah) apparteneva al sultanato di Sulu (isole meridionali delle Filippine), fu ceduto in concessione alla British North Borneo Company nel 1878 e divenne dominio della corona britannica nel 1920. Ciononostante, l’Alta Corte del North Borneo decretò il 19 dicembre 1939 che il legittimo successore di Sabah non era la Gran Bretagna bensì le Filippine in quanto successori del sultanato di Sulu.
Nel 1963, la Malaysia neo indipendente comprese lo stato di Sabah e furono rotte le relazioni diplomatiche fino al 1989. Oggi Manila non ignora il proprio diritto, ma l’ha tolto dalle priorità per migliorare i rapporti con la Malaysia.
La questione è dormiente, ma la posta in gioco è alta: Sabah è lo stato più esteso della Malaysia, il terzo più popoloso (3,5 milioni), con giacimenti di gas e petrolio, lo stretto di Palawan sarebbe sotto completo controllo filippino e le Spratly malesi diverrebbero filippine, essendo sotto la giurisdizione di Sabah.

Il Brunei reclama una porzione di mare come EEZ e non detiene il controllo militare dell’area. Non vi sono mai state proteste ufficiali nei confronti dell’occupazione vietnamita, mentre con la Malaysia è aperto un dialogo da diversi anni e vi sono state proposte di prospezioni petrolifere comuni tra le parti, mai attuate fino ad oggi.
Vista la limitata possibilità delle forze armate del paese e la mancanza di rivendicazioni forti rispetto alle altre nazioni, il Brunei è, di fatto, il paese con la posizione più passiva. La propria situazione geografica spiega già di per se il motivo del basso profilo del Brunei nel contenzioso.
L’economia del Brunei, di fatto, dipende fortemente dall’industria di estrazione petrolifera e del gas sulle proprie coste sia in termini assoluti sia facendo il confronto con gli altri paesi della regione. Pertanto può lasciare perplessi l’approccio passivo in confronto agli altri paesi alla luce della questione del potenziale di idrocarburi. Tale posizione non stupisce se si tiene conto della fame di energia di Vietnam e Filippine (per non parlare della Cina) vista la crescita fortissima del proprio apparato industriale, quasi inesistente invece nel sultanato.
In futuro, l’effettiva scoperta di giacimenti al largo delle coste del Borneo – molto verosimilmente – renderà più attiva la posizione del Brunei, il quale non sarà in grado di sostenerla da solo. Pertanto, si potrebbe considerare scontata una attività congiunta con Kuala Lumpur.

La Malaysia rivendica una piccola porzione delle Spratly. Nel passato, non vi sono stati scontri o incidenti con gli altri contendenti, ad eccezione di un episodio nell’ottobre 1999, quando sopra un’isola da essa occupata 2 aerei militari filippini e 2 aerei militari malesi hanno quasi ingaggiato un combattimento.
I rapporti con il Vietnam sono molto buoni e un contenzioso minore nel golfo di Thailandia ove le EEZ dei due paesi si sovrapponevano è stato risolto con un accordo di sfruttamento comune, a cui si aggiunge l’adiacente zona di sfruttamento comune tra Malaysia, Thailandia e Vietnam. La Malaysia riveste un ruolo economico sempre più crescente per l’economia vietnamita visto l’imponente volume di investimenti malesi del 2008, primo paese investitore in quell’anno e tra i primi cinque complessivi, nonché tradizionale partner commerciale.
Risoluzioni delle dispute territoriali tra i due paesi nelle Spratly non sono ancora state affrontate e fino ad ora non sembra essere nemmeno una priorità.
Inusuale è invece la situazione de facto con il Brunei. Le rivendicazioni malesi coincidono per oltre il 90% con quelle del sultanato e la posizione dell’isola da essa occupata (con la costruzione di un faro) “soffoca” la EEZ del vicino. Ciononostante, la situazione è poco conflittuale, come per il contenzioso con Manila, se la questione Sabah resta dormiente.
Per tradizione, anche la Malaysia vede con un certo timore la presenza cinese nelle acque ad essa limitrofe, troppo vicina alle sue coste e bacini energetici. Tale sentimento è attenuato dal vigore dei rapporti economici tra i due paesi e dalla forte comunità di origine cinese.

L’Indonesia non ha contenziosi territoriali diretti: esiste una sovrapposizione tra le rivendicazioni con il Vietnam, ma i due governi si sono già dichiarati disponibili a risolvere il problema in modo pacifico tramite dialoghi interministeriali e una possibile commissione ad hoc. Ad ogni modo, Hanoi e Jakarta non sollevano la questione ormai da anni.
I rapporti tra i due paesi sono molto forti in quanto vi è la reciproca consapevolezza del potenziale demografico, politico ed economico che possono entrambi giocare in ambito ASEAN. L’Indonesia, fino alla crisi asiatica del 1997, era il paese leader indiscusso in ambito ASEAN, ambizione che sta tornando in auge. Il Vietnam dal canto suo esercita un’importante influenza sugli altri stati della penisola indocinese, ad eccezione della Thailandia, rendendolo, di fatto, leader regionale.
Un punto comune al Vietnam sono i rapporti con la Cina. Da sempre Jakarta si ritiene apertamente antagonista di Pechino nel Sudest Asiatico e le mire espansionistiche di quest’ultima si conciliano poco con le ambizioni indonesiane. Ulteriore tensione è data dalla poca chiarezza degli schemi cinesi: le rivendicazioni cinesi non comprendono l’isola di Natuna, ma in più di un caso sono state prodotte carte ove Natuna è inclusa, con grandi proteste dell’Indonesia.
Non vi sono rischi sul versante malese nonostante le relazioni spesso altalenanti tra i due Stati, mentre preoccupa molto di più Jakarta non solo il movimento cinese nelle Spratly ma soprattutto la debolezza delle Filippine e il conseguente controllo dello stretto di Palawan, la via obbligata per merci e idrocarburi estratti ad est del Kalimantan verso i mercati asiatici.
Pertanto i rapporti tra Vietnam e Indonesia si rafforzano enormemente ed è ormai opinione comune di esperti militari e analisti economici, indicata anche nello “Scontro di Civiltà” di Hungtington, che questi due paesi scavalcheranno Thailandia e Filippine come importanza strategica per gli Stati Uniti. È da ricordare inoltre che l’associazione del Vietnam nel 1995 all’ASEAN è stata positivamente accolta dalle altre nazioni ASEAN in quanto rappresenta politicamente e militarmente un’ulteriore assicurazione e protezione dall’ingerenza cinese.
In ambito ASEAN, ove si applica la pratica del Consensus, nel 1995 e nel 2002 c’è stato un fronte comune in funzione anti-cinese, mentre oggi si assiste ad alcune spaccature, dato che Cambogia, Laos e Myanmar non hanno sbocco su tale mare, la Thailandia ha un antagonismo storico nei confronti del Vietnam e Singapore guarda a questioni etniche e di natura economica con la Cina.
Oltre a Stati Uniti, Giappone e Corea, anche Australia e India premono molto per una soluzione del contenzioso, tendenzialmente a svantaggio di Pechino. Ciononostante, salvo gli Stati Uniti, gli altri “osservatori” non possono affrontare direttamente la questione essendo in “periferia”, per la sicurezza su altri confini e per implicazioni economiche con il gigante cinese.

Taiwan, nonostante non sia Sudest Asiatico, è soggetto di una particolare situazione nel Mar Cinese Meridionale. Le rivendicazioni territoriali di Taiwan nell’area sono identiche a quelle della Cina, non solo a seguito del contenzioso storico tra Pechino e Taipei, ma ancor più perché in origine fu proprio l’establishment repubblicano degli anni ‘30 a tracciare i famosi “segni” sulle cartine che reclamano la quasi totalità del mare alla Cina.
Taipei occupa militarmente le isole Pratas e mantiene il controllo dell’isola di Itu Aba, l’isola più grande dell’arcipelago delle Spratly.
Le Pratas sono strategicamente importanti perché la loro vicinanza a Formosa le rende un punto di difesa e di comunicazione in direzione sud. Inoltre, in vicinanza delle isole, la Cina sta già sfruttando dei giacimenti di gas. Non sono ancora state effettuate prospezioni da parte delle autorità taiwanesi, ma la possibile presenza di gas nelle Pratas rappresenterebbe per Taiwan un’ulteriore fonte energetica propria che si aggiungerebbe alle esigue risorse possedute.
D’altro canto, viste da Pechino, le Pratas rappresentano un gap difensivo nella linea che congiunge Hainan e Pratas (oltre che alla stessa Formosa), lasciando scoperte Canton e Hong Kong.
Itu Aba è l’unica isola delle Spratly ove è possibile costruire un aeroporto e piccole strutture portuali senza ricorrere ad allargamenti artificiali (vedasi Mischief Reef). Inoltre, essendo al centro della maggiore concentrazione dell’arcipelago permette un controllo delle attività degli altri contendenti.
Con il possesso delle Pratas e Itu Aba e le rivendicazioni del Mar Cinese Meridionale, ma anche delle isole Senkaku (ad est di Formosa, sotto controllo giapponese), Taiwan si trova nella situazione di fatto di essere uno Stato Arcipelagico, che con un “corridoio logistico” formato da Itu Aba, Pratas e Formosa, isola teoricamente le acque territoriali e la marina militare cinesi dalle rotte delle navi container e delle petroliere. Relazioni storiche e attuali di Giappone, Corea e Stati Uniti con la Cina sono un punto a favore di Taiwan come possibile “gendarme del mare” per proteggere i loro interessi economici.
Taiwan è indubbiamente un attore economico di primo rilievo per gli altri paesi sia in quanto partner commerciale sia, elemento di maggior peso, come investitore. Taiwan è infatti il primo investitore in Vietnam e tra i principali investitori in Malaysia, Filippine e Indonesia.
Ciononostante, l’assenza di rapporti diplomatici a causa della politica dell’Unica Cina indebolisce la forza economica di Taipei nei confronti degli altri stati con i quali, di fatto, non vi sono rapporti, se non sporadici (e mai di natura politica o militare). Infatti, quando nel 2002 gli stati appartenenti all’ASEAN e la Cina firmarono il Code of Conduct Taiwan non venne invitata all’iniziativa.
Resta rilevante notare che non vi sono stati incidenti o momenti di tensione fra Taiwan e gli altri Stati dal 1995, quindi anche se non figura fra i firmatari del Code of Conduct in realtà è forse l’attore che più ne ha seguito gli intenti. Questo può essere anche facilmente spiegato dato il rischio di una ritorsione di qualsiasi natura che tocchi direttamente l’isola di Formosa a causa di eventi nel sud. Un’altra spiegazione per il comportamento di Taiwan è negli sviluppi negli ultimi anni dei rapporti più distesi (soprattutto in ambito economico) tra Taipei e Pechino che non rendono utile una politica intransigente e dai toni alti: le comuni rivendicazioni e l’approccio di Taiwan rendono un ottimo servizio agli interessi della Cina. In passato si sviluppò la tesi di utilizzare le rivendicazioni e la presenza nel Mar Cinese Meridionale come moneta di scambio per il riconoscimento di Taiwan da parte degli altri stati rivieraschi, ma oggi è a dir poco impensabile vista l’importanza del colosso cinese.

5. Quale soluzione?

In conclusione, avendo visto la panoramica storica, la posta in gioco e la particolare situazione dei “piccoli” attori della disputa, 3 sono le possibilità aperte agli stati del Sudest Asiatico per risolvere a loro favore il conflitto.
La prima possibilità è il conflitto armato su scala locale.
Ciononostante, l’opzione reca molti dubbi perché il Vietnam confina con la Cina e si troverebbe ad affrontarla da solo sulle Paracel, le Filippine hanno un apparato di sicurezza particolarmente fragile, le forze armate malesi e cinesi non si trovano nemmeno in contatto nelle Spratly, mentre Brunei e Taiwan difficilmente interverrebbero, il primo per mancanza di mezzi, il secondo per una eccessiva esposizione nei confronti di Pechino. Infine, non è possibile prevedere la costituzione di un’alleanza fra questi paesi e, ben più importante, provocare uno scontro è un suicidio politico nei confronti della comunità internazionale, oltre che violare il Code of Conduct del 2002, senza contare i costi diretti e indiretti dell’operazione.
La seconda possibilità è il mantenimento dello status quo.
In sostanza, si tratterebbe di ricercare limitati risultati di riconoscimento delle proprie rivendicazioni su base bilaterale e soprattutto multilaterale, in particolare in ambito ASEAN e tramite Corti Internazionali di Giustizia. Presupposto per adire alle Corti è l’unanimità di richiesta di tutti gli attori. Proprio questa mancanza, col passare del tempo, rafforza la posizione de facto della Cina.
Terza possibilità, più auspicabile, è un innalzamento dei rapporti da bilaterali a multilaterali “ristretti”.
Mirando a escludere la Cina (e Taiwan) da possibili colloqui (più facile se informali o segreti), Vietnam, Filippine, Malaysia e Brunei dovrebbero puntare a risoluzioni e ad iniziative comuni. Di fatto, esiste una divisione tra le isole occupate viste le concentrazioni di Malaysia a sud, Filippine ad est e alla preponderanza nel resto dell’arcipelago del Vietnam. Per la questione Paracel, Hanoi potrebbe ottenere supporto dagli altri 3 paesi cedendo alcune postazioni (dopo l’ottenimento delle Paracel) e, ipotesi fantapolitica, nulla vieta che si trovi un accordo (su carta) sulla “spartizione” delle postazioni cinesi e di Itu Aba per creare quadranti più omogenei.
Sicuramente un accordo di mutua difesa (seguito da esercitazioni congiunte) contro azioni cinesi rafforzerebbe di molto la loro posizione sul campo e a livello regionale e multilaterale.
Iniziative comuni ancora più importanti devono essere il comune utilizzo e gestione delle risorse. Infatti è solo tramite l’accordo tra questi paesi che le risorse ittiche possono avere la giusta regolamentazione per sfruttamento e riproduzione e l’iniziativa tripartita del 2005 per missioni scientifiche è un ottimo esempio di come si può operare in comune, spingendosi anche nella ricerca di risorse energetiche e (più difficile nel trovare un accordo) sull’estrazione di petrolio e gas.
Ad ogni modo, è evidente che prima ancora di un tale disegno multilaterale, devono essere fatti grandi passi in avanti sulle relazioni bilaterali Brunei-Malaysia e Vietnam-Filippine [6].
In mancanza di tali sforzi e lungimiranza, il Mar Cinese Meridionale rischia di diventare meno mare e più lago. Cinese.

* Massimiliano Bertollo, esperto di relazioni internazionali e geopolitica, si occupa principalmente delle aree Sudest Asiatico e Asia Centrale

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

Note

[1]Non è intenzione di questo articolo approfondire la materia UNCLOS, bensì di analizzare direttamente, sotto l’aspetto geopolitico, le rivendicazioni territoriali e la situazione de facto.
[2] Tratte da Xue, China and International Fisheries Law and Policy.
[3] U.S. Geological Survey, 1993/1994, www.eia.doe.gov.
[4] www.eia.doe.gov.
[5] Nell’aprile 2006 una cooperazione fra Husky Energy e Chinese National Offshore Oil Corporation ha annunciato la scoperta di riserve di gas molto a nord delle Spratly.
[6] Ipotizzando un non inasprimento della questione Sabah tra Kuala Lumpur e Manila.

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